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IN ITALIA|Assemblea Cei. Il Segretario ammorbidisce i toni del Presidente

di Simone Di Stefano/Dazebao, l’informazione on-line

Monsignor Crociata: non siamo un soggetto politico, ci sforziamo di proporre, segni, gesti, ci mettiamo in gioco. Questione morale? Puntiamo sul richiamo alla responsabilità e alla compostezza


di Simone Di Stefano/Dazebao, l’informazione on-line

«Sarebbe falso farci dire che il governo non ha fatto niente, sarebbe una strumentalizzazione. Il governo lo giudica chi fa politica». Le parole del Segretario generale della Cei, Monsignor Crociata, durante la conferenza stampa conclusiva della 59esima assemblea generale dell’episcopato italiano, suonano come un chiaro monito alla presa di posizione di ieri del Presidente della Cei, il Cardinale Bagnasco.

Tanto più che, come scrive Pier Luigi Celli in Miracoli, «i preti, si sa, quando conviene sanno stare zitti». E allora all’occorrenza capita di correggere accuratamente il tiro del collega che solo il giorno prima aveva lanciato un duro monito alle istituzioni, in questo caso attraversando il dibattito politico su tematiche come lavoro, immigrazione, fisco, ammortizzatori sociali.

Le parole proferite ieri da Bagnasco,  sono suonate come una dura presa di petto nei confronti del governo. Evidentemente troppo per la Conferenza episcopale, ecco perché oggi non è tardato ad arrivare il chiarimento: «Non siamo – ha precisato Crociata – un soggetto politico che deve dare patenti o riconoscimenti a nessuno. Siamo un soggetto pastorale che se vede una situazione di crisi, si sforza di proporre segni, gesti, e di mettersi in gioco». Soggetto politico cui il Monsignore auspica si trasformi l’Unione Europea, per non svuotarsi in «organismi solamente burocratici, privi di un’anima comunitaria, con le derive che ne possono nascere». Riguardo la moratoria sui licenziamenti proposta dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, Crociata ha le idee ancor più chiare: «Tutto ciò che va nella direzione di un miglioramento delle condizioni dei lavoratori non può che vederci soddisfatti e contenti».

Spazio al dogma e alla dottrina, sembrano sibilare i vescovi, ma attenzione perché vi teniamo sempre ben d’occhio. Casus belli sarebbe potuta anche essere la “questione morale” che sta travolgendo la credibilità del governo, o meglio del suo capo. Ma tra il far finta che vada tutto bene, come fa il Cavaliere e il desiderio smodato di impeachment, che nutre parte dell’opposizione, più che ai giudizi i vescovi puntano sul richiamo, questo sì, alla compostezza e alla responsabilità degli adulti. «Un richiamo – secondo il Monsignore – che non può essere sottovalutato, evaso, ma nemmeno strumentalizzato a livello di cronaca quotidiana». Circa le molteplici questioni morali odierne, «nostro compito è tenerle vive tutte, non andando a esprimere giudizi su questo o quello. Ognuno – ha poi proseguito Mons. Crociata – ha la propria coscienza e ognuno ha la propria capacità di giudizio. La chiesa fornisce indicazioni che possono essere applicate a noi stessi e agli altri».

Tuttavia tra il Presidente e il Segretario della Conferenza emergono anche dei punti di contatto, come quello sull’immigrazione e sul concetto di “malinteso multiculturalismo” espresso ieri da Bagnasco. In questo caso emerge lo stesso pensiero, «perché – ha spiegato il segretario generale della Cei – il multiculturalismo porta a culture isolate, enclavi chiuse, isole separate e questo non è il modello da perseguire, in quanto ha già dimostrato in altre nazioni gli effetti di non riuscita». Dunque la preferenza della Chiesa è per un modello sempre più interculturale, «perché è scambio, arricchimento, condivisione di un territorio e dei valori e istituzioni che fanno l’unità di quel territorio».

INTERNAZIONALE|Tensioni su Pio XII, la deriva del revisionismo

In Israele continua la polemica sulla beatificazione di Papa Pacelli. Risponde il Vaticano: «sono affari interni alla Chiesa», mentre Benedetto XVI non andrà in Israele finché non verrà rimossa la didascalia di Papa Pio XII al museo Vad Yashem sull’olocausto

di Simone Di Stefano/SG

Il dibattito attorno al Medio Oriente durante questi giorni ruota molto attorno alla crisi di governo in Israele. La leader di Kadima, Tzipi Livni, non è riuscita a unire una forza di maggioranza attorno a se e quindi si andrà alle elezioni anticipate. C’è tuttavia un’altra questione che in Italia è stata affrontata marginalmente, ma che meriterebbe maggiore approfondimento per le implicazioni internazionali. Si tratta del caso diplomatico che si è venuto a creare la settimana scorsa attorno al viaggio in Israele rimandato dal Papa Benedetto XVI per via di una didascalia al museo dello Yad Vashem sull’Olocausto, contenete delle informazioni su Papa Pacelli ritenute «offensive» dal Vaticano.

Grosso modo sono riportate sulla scritta le seguenti parole:«Eletto nel 1939, il Papa mise da parte una lettera contro l’antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore. Anche quando i resoconti sulle stragi degli ebrei raggiunsero il Vaticano, non reagì con proteste scritte o verbali. Nel 1942, non si associò alla condanna espressa dagli Alleati per l’uccisione degli ebrei. Quando vennero deportati da Roma ad Auschwitz, Pio XII non intervenne».

La Chiesa di Roma avrebbe fatto sapere che fin quando la didascalia continua a rimanere sotto l’effige del Papa in questione, il viaggio di Joseph Ratzinger in terra santa non si farà. Una presa di posizione che ha trovato l’immediata replica del Ministro degli Affari Sociali israeliano, Isaac Herzog, che in un’intervista pubblicata di recente sul quotidiano nazionale Haaret’z, ha ribadito con forza che «durante l’Olocausto il Vaticano sapeva molto bene quello che accadeva in Europa e non vi è alcuna prova, per ora, di alcun provvedimento preso dal Papa. Il tentativo di far diventare santo Pio XII è una forma di “sfruttamento dell’oblio” rispetto a quei fatti e testimonia “una assenza di consapevolezza”. Invece di essere coerente con il verso biblico nel quale si afferma ‘Tu non permetterai che si versi il sangue del vicino’, il Papa rimase in silenzio e forse fece anche peggio».

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IL CASO|Benedetto XVI predica dall’aereo, ma sbaglia pubblico

Di ritorno dal viaggio in Australia il bilancio del Papa. Nei telegrammi inviati ai tredici stati sorvolati, benedizioni cattoliche a capi di stato musulmani.

                Simone Di Stefano

Questo Papa non si ferma mai. Da ovest a sud, da nord a est. Peripli, piroette e peripezie per Joseph Ratzinger, al secolo Papa Benedetto “decimo sesto”, come amano chiamarlo i più eruditi e romantici di tempi passati, quando veramente essere Papa significava molto più che esser privilegiati. Accade allora che di ritorno da un viaggio all’estero, in rappresentanza del proprio paese, un capo di stato invii telegrammi agli stati sorvolati.

Ovvio, perché ogni volta che Benedetto XVI si reca in viaggio in qualità di Papa, lo fa a nome dello stato che rappresenta, in questo caso il Vaticano. Un viaggio che il Papa ha intrapreso mentre in Italia, un paesino così vicino al Vaticano, Bossi si scagliava contro l’inno di Mameli, il caso Del Turco faceva tornare l’incubo di tangentopoli, Napoli era ancora piena di rifiuti (nonostante i proclami di Silvio Berlusconi) e in Parlamento passava la legge salva Premier. Sua Santità invece se ne stava pacioso tra maori e canguri a professare la parola di Dio. Non c’è nulla di male, tanto che al Vaticano cosa mai può interessare la sorte dell’Italia? Altro stato, altra lingua, altra economia, altri interessi (quelli soprattutto). Alla stregua della Norvegia o del Congo.

Di ritorno, una volta atterrato all’aeroporto di Ciampino alle ore 22.58 di ieri sera, Benedetto XVI è stato accolto dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, e come da prassi ha inviato un telegramma al Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano: « Al rientro dal viaggio apostolico – si legge nel testo – che mi ha condotto in Australia, in particolare a Sydney, dove ho avuto la gioia di incontrare giovani provenienti da tutto il mondo, pronti a lasciarsi guidare dalla forza dello Spirito Santo per contribuire generosamente alla costruzione della civiltà dell’amore, desidero inviare a lei, signor presidente, e alla diletta nazione italiana il mio cordiale saluto invocando su tutti le benedizioni di Dio». Rieccoci. Allora non siamo stati proprio del tutto abbandonati dal Santo Padre. Allora lui ancora ci pensa. La preoccupazione che se ne fosse rimasto con i maori effettivamente aveva pervaso a molti.

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