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Il Parlamento Europeo: “la soluzione in Palestina deve trovarsi nell’Onu”

I negoziati delle Nazioni Unite rappresentano la strada giusta per gli eurodeputati, che chiedono alla UE di fare la propria parte

 La richiesta di riconoscimento dello stato palestinese è legittima, secondo la maggioranza degli eletti a rappresentare i cittadini europei. In una risoluzione non legislativa approvata oggi, gli eurodeputati chiedono ai governi della UE di assumere una posizione comune a tale proposito, ma ribadiscono anche che il riconoscimento dovrebbe essere il risultato di negoziati in seno alla Assemblea Generale.

Il testo approvato afferma sia il diritto del popolo palestinese alla autodeterminazione, sia il diritto all’esistenza dello stato di Israele entro frontiere sicure. L’Europarlamento ha ribadito il suo sostegno alla soluzione dei due stati sulla base dei confini del 1967, con Gerusalemme capitale dei due stati ed ha chiesto la ripresa dei negoziati.

La risoluzione europea si oppone a modifiche rispetto ai confini precedenti il 1967, eccetto quelle concordate tra le parti.  L’assemblea eletta dai cittadini europei ha chiesto all’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri, Catherine Ashton, oltre che agli stati componenti la comunità, di raggiungere una posizione comune sulla richiesta palestinese, per evitare divisioni.

Il Parlamento Europeo ha confermato che la comunità internazionale deve garantire la sicurezza di Israele ed ha chiesto al governo israeliano di interrompere la costruzione e l’ampliamento degli insediamenti in Cisgiordania ed a Gerusalemme est e sottolineato che occorre arrivare ad una tregua definitiva.

L’ultima tragedia nell’isola dei liberi

Port-Au-Prince prima del sisma

 

Haiti, dilaniata dal terremoto ieri, è stata il simbolo dell’indipendenza delle Americhe e della libertà dei neri, ma anche un nome che richiama una serie di situazioni drammatiche, vicende determinate dall’uomo e dalla sopraffazione economico militare degli stati più forti, ferite cui si aggiunge il disastro naturale che in presenza di infrastrutture fatiscenti ha colpito ancora più duramente la nazione di Haiti e la sua capitale

 
Un terzo dei nove milioni di abitanti della poverissima Haiti direttamento colpito. Si parla di centomila vittime e forse purtroppo sono molte di più. L’aiuto mondiale che si mette in moto è preceduto dalla velocità delle immagini e dalla urgenza del dramma che ha picchiato duro su un bersaglio già fragile. Haiti è uno degli stati più esposti all’indigenza, ai problemi di salute, alla instabilità istituzionale, delle Americhe e del pianeta. Le scene riferite dai primi testimoni erano quelle dei film catastrofici, l’energia stimata dai sismologi trenta volte il caso dell’Aquila. Le infrastrutture a Port-Au-Prince erano quelle che erano, ma la forza del sisma ha buttato giù anche le più solide, i pochi simboli dello stato.

Quella di Haiti è una storia importante e dolorosa. Qui, nel 1792, rivoluzionari francesi si allearono con gli ex schiavi neri, la stragrande maggioranza della popolazione nell’isola, per cambiare la faccia del mondo: che cambiò davvero, perchè Toussaint L’Ouverture, leader dei neri, riuscì a tenere lontani gli spagnoli e più tardi a resistere al corpo di spedizione inviato da Napoleone per riprendere il controllo della colonia francese. L’Ouverture fu imprigionato e morì nella prigionia francese, ma poco dopo, nel 1804, Haiti divenne libera.

Avanguardisti dell’autodeterminazione nell’America del Sud e nel Sud del Mondo, gli haitiani dovettero difendere costantemente ciò che nell’epoca del colonialismo era un’eresia fatta realtà, uno stato di ex schiavi, di neri, di sudamericani umili che avevano il controllo del proprio governo. Germania, Stati Uniti, Francia, in una occasione pure la comunità siriana: non si contano le potenze e i gruppi di influenza che a cavallo tra 1800 e 1900 cercarono di impadronirsi delle leve del comando nel piccolo stato, ricco di risorse ma con una popolazione poverissima.

La più recente sciagura che ha reso nota la repubblica nel mondo è stata la dittatura di Duvalier, una storia durata dalla fine degli anni cinquanta alla metà degli anni ottanta e che ha proseguito la spoliazione delle risorse del paese a vantaggio di sparuti ma potentissimi gruppi finanziari i cui vertici si trovavano lontanissimi dalla vita disperata delle periferie e dei campi haitiani: a Parigi e in altre grandi capitali, dove risiedevano i soli amici dell’oligarchia che con il loro aiuto militare e strategico manteneva il controllo dell’isola (la cui porzione governata dalla repubblica Dominicana stava passando attraverso una vicenda per moltissimi aspetti analoga).

Oggi si assiste ad un terremoto, che è un fenomeno naturale quanto tragico: ad Haiti c’è già una missione delle Nazioni Unite, difatti sul campo sono rimasti anche alcuni caschi blu, cooperatori americani ed altre persone legate all’isola. La missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite è lì fin dal 2004 e ricorda al mondo che adesso che l’obiettivo dei media è puntato su Port-Au-Prince, attirando navi di aiuti e decine di migliaia di uomini e mezzi, è il momento opportuno per rendersi conto del terremoto non meno letale, sociale e civile, abbattutosi quasi ininterrottamente sulla repubblica haitiana almeno se si guarda agli ultimi cento anni. E non si tratta di un’immagine retorica, perchè ha provocato stragi reali.

All’emergenza attuale deve seguire la ricostruzione di Haiti e delle sue istituzioni (solo cinque  anni fa è avvenuto l’ultimo colpo di stato) e specialmente il mondo nordoccidentale può sostenere la nazione nera di quest’isola, dove tante lacerazioni sono sorte proprio per interventi interessati da parte delle potenze di turno. L’urgenza della solidarietà può fornire agli stati più forti il coraggio di sostenere Haiti. La popolazione locale di coraggio ne ha dimostrato già in tutta la sua storia. La politica mondiale è cambiata profondamente tra 2008 e 2009 ed il segnale che verrà dato a questa comunità può realmente lanciare l’indicazione che si vuole fare del momento attuale l’anno zero di molte questioni irrisolte.

Aldo Ciummo

l’Unione Europea vuole passi in avanti sul clima

 

Per l’Unione Europea il sistema secondo il quale si svolgono le discussioni sul clima nelle Nazioni Unite dovrebbe essere cambiato, per evitare che i vertici sul contrasto ai danni provocati dall’inquinamento diano come esito un nulla di fatto.

 

Nell’ultimo vertice sul riscaldamento globale si è veduto un peso eccessivo dei veti contrapposti e ciò ha impedito che le indicazioni positive che pure erano venute dalle elaborazion i della Unione Europea, dalla generosità dei paesi anglosassoni e dalle esperienze di economia sostenibile molto avanzate dei paesi scandinavi si traducessero in una decisione accettata da tutti.

A Copenaghen hanno pesato, probabilmente, la crisi economica che ha messo un freno alla politica ecologica di Obama e il mancato accordo con i paesi meno sviluppati, per i quali una politica industriale oculata in fatto di ambiente significherebbe effettivamente dover rallentare una crescita finanziaria di cui le popolazioni hanno bisogno in quei luoghi.

L’attuale presidenza della Unione Europea, attraverso il ministro degli esteri spagnolo Miguel Angel Moratinos ha affermato che bisogna introdurre nuovi elementi se si vuole far funzionare le discussioni in materia di clima.

Nel 2012 “scade” il protocollo di Kyoto e il vertice che si è concluso il 19 dicembre con l’obiettivo di rimpiazzarlo ha prodotto un documento che auspica forti riduzioni delle emissioni di sostanze che provocano il riscaldamento del pianeta, ma non vincola le nazioni a risultati precisi in tal senso.

La Commissione Europea sostiene che questa situazione è incresciosa e Moratinos, per la presidenza spagnola della Unione Europea, ha dichiarato ieri che la UE intende arrivare ad un grado maggiore di impegno nel prossimo vertice che si terrà il prossimo dicembre in Messico. La Ue ha anche esortato gli Usa a sostenere questa posizione.

Aldo Ciummo