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IN ITALIA|Radicali a Chianciano. Prove di intesa con i Socialisti

di Simone Di Stefano/Dazebao, l’informazione on-line

Sotto l’egida dei Radicali di Marco Pannella e Emma Bonino, si sono riuniti a Chianciano, da ieri fino a domenica, membri interni al partito Radicale e ai Socialisti, ma anche tanti esponenti esterni al partito, da Zanonato a Rutelli, da Scalfarotto a Migliore. Sono mille e sono volontari, o meglio autoconvocati. Come il corpo di spedizione capeggiato da Garibaldi in pieno Risorgimento. «L’appuntamento – precisano gli organizzatori – è per gli individui politici che hanno interesse a coltivare le individualità e non le appartenenze. Vogliamo condividere, vincere e convincere».

E se qualcuno pensava che l’obiettivo fosse quello, da molti paventato, di riproporre in pompa magna una nuova Rosa nel Pugno, fin dalle prime battute sarà rimasto a bocca asciutta perché alle parole di Emma Bonino che ieri parlava di nuovo progetto, si sono aggiunte quelle di Marco Pannella che ha annunciato di voler andare oltre. «Siamo più ambiziosi – ha detto Pannella in apertura dell’assemblea dei Mille Autoconvocati -, per il momento non c’è bisogno di una nuova formazione. Occorre piuttosto creare un’alternativa al regime partitocratico, un progetto politico».

Pannella ha assicurato di essere ottimista: «Poiché sono testardo e tenace ce la faremo a superare il degrado d’Italia e il sessantennio ormai compiuto della partitocrazia». Uno sguardo oltre quel 3% però è d’obbligo per continuare ad esistere. Il feeling con i Socialisti è ormai rodato e Pannella  lo ha confermato rispondendo al segretario del Partito Socialista, Riccardo Nencini, che aveva lanciato la proposta di una società di mutuo soccorso tra i due partiti: «Non sono contrario, purché si tratti di un soccorso mirato», le parole del leader radicale. Nencini invece ha espresso seria preoccupazione in merito al congresso del Pd, fissato a ottobre. «In questi cinque mesi che separano il Pd dal congresso – ha detto il segretario Ps – la sua azione e posizione al governo sarà frenata da lotte furibonde al suo interno».  Quindi occorre unire le forze in vista di una possibile debacle implosiva dei Democratici. Ecco allora l’idea di Nencini: chiamare a raccolta il partito di Sinistra e Libertà, per unire il 6% di voti complessivamente conquistato dai tre partiti, con lo scopo di «organizzarsi con un ruolo di supplenza all’opposizione». E da Brindisi è arrivata la strizzata d’occhio della portavoce dei Verdi, Grazia Francescato: «Ora si apre lo spazio per rimettere insieme i cocci della coalizione di centrosinistra per vincere contro questo centrodestra devastante, in campo economico, sociale e ambientale. Chianciano è un’occasione di confronto franco tra i partiti cosiddetti ‘minori’, ma che sono quelli che hanno fatto le battaglie più importanti».
In attesa del nuovo intervento di Marco Pannella, hanno sorpreso e fatto discutere le parole di elogio che il massimo esponente dei Radicali ha dedicato, durante l’intervento di ieri, al Presidente della Camera Gianfranco Fini. Una lettera per un «pubblico omaggio», un «audace e necessario saluto radicale e a nome dei radicali».
«Abbiamo in molti il sospetto, l’intuizione, il conforto – ha proseguito Pannella – che Lei rappresenti, o quanto meno annunci, quella metamorfosi del bene antitotalitaria, laica, liberale, costituzionale e quindi antifascista, che invece, sotto mentite spoglie, gli eredi dei vincitori del 1945-48 hanno tradotto in un sessantennio partitocratico e come tale antidemocratico, riproposizione del disordine costituito in Italia e (forse, temiamo) anche in Europa».
L’appello del leader radicale è un atto dovuto in quanto Fini «opera dimostrando di avere e rispettare, nell’esercizio delle Sue funzioni istituzionali e anche di quelle civili che non sono in esse incluse, un forte reale senso dello Stato». Il leader radicale ricorda la convinzione che il «sessantennio partitocratico ancora in corso, rappresenti la metamorfosi antifascista del male fascista». C’è ragione di ritenere, ha infine aggiunto Pannella, che «l’Italia non sia più, e da tempo, una democrazia, uno Stato di diritto. Lei meglio ci conosce e sa quanto per noi vi sia motivo di speranza e di conforto per la oggettiva, intima, seconda contraddizione fra il regime dominante e il suo essere ai vertici dello Stato, cosi come il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano».

IN ITALIA|Effetto Gelmini. Moria di studenti non ammessi agli esami. Rimedia la scuola privata

Aumentano i somarelli, causa del giro di vite del decreto Gelmini. Colpa anche del voto in condotta, ma non per i privatisti.

di Simone Di Stefano/Dazebao, l’informazione on-line

ROMA – Ricordate il dibattito sui voti in condotta? E ricordate le polemiche sulla media del sei per l’ammissione agli esami di maturità? Già da quest’anno nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, con il 5 in condotta si è bocciati e basta anche un solo voto rosso per far saltare la media e portarla al di sotto del sei, quindi alla non ammissione alle prove finali. Sarà pure un caso ma il giro di vite c’è subito stato. Sarà pure un caso ma il giro di vite c’è subito stato.

Cinquecentomila sono gli studenti che da giovedì inizieranno gli esami di maturità che chiuderanno il ciclo scolastico, ma i dati che arrivano dal Ministero dell’Istruzione suonano da vero campanello d’allarme per il numero sempre più crescente di ragazzi che subiscono la stangata all’ultimo atto. Anche perché, condotta in rosso a parte, sono proprio i numeri delle materie che stentano a decollare, relegando i nostri studenti, anche quelli migliori, a un livello di istruzione tra i più bassi in Europa.

E le stime sarebbero potute essere ancor più terrificanti se il ministro Gelmini non avesse rivisitato il decreto e fatto valere nella media anche la condotta e il voto di Educazione Fisica.

Se le cifre non sono ancora definitive – il cervellone elettronico di viale Trastevere è tuttora in fase di analisi e mancherebbero nel computo complessivo ancora la metà dei dati riguardanti gli studenti in procinto di diplomarsi – si tratta comunque di un trend negativo rispetto agli anni passati, con circa il 6% degli studenti non ammessi alle prove finali, rispetto a una cifra che lo scorso anno si aggirava attorno al 4 – 4,3%. In termini spiccioli significa, al momento, bocciatura immediata per circa 27 mila studenti.

Ragazzi indisciplinati e quindi meritevoli di una severa punizione forse, ma vittime comunque di una disparità di trattamento.

Infatti, se per i meno disillusi la scuola è pur sempre un baluardo di imparzialità, una palestra di vita, quest’anno invece, con la reintroduzione della regola che prevede almeno la media del sei per sostenere le prove, si è creata anche una disparità di trattamento.

Infatti la nuova norma, un filtro di selezione molto rigido, riguarda esclusivamente i ragazzi iscritti alle scuole pubbliche che sosterranno quindi gli esami da interni. Non riguarda invece gli studenti privatisti, coloro cioè che, pagandosi professori privati, si presentano agli esami senza aver frequentato neanche un’ora di lezione in classe. Questo grazie a un buco della normativa, non ancora sanato, che nel 2007 reintrodusse l’ammissione agli esami, ma solo per gli interni.

I “privilegiati” sono circa 25 mila e 600, quasi la stessa cifra dei loro colleghi non ammessi. Inoltre c’è da considerare la situazione di quanti sono rimasti vittime di cinque o quattro in condotta frutto delle occupazioni scolastiche di protesta contro il decreto Gelmini. La linea del governo sembra essere sempre quella celodurista, con l’impietoso commento che si sarebbe lasciato scappare nel corso di una treasmissione radiofonica il consigliere politico  del ministro Maristella Gelmini, Giorgio Stracquadanio, alla richiesta su cosa pensasse dei ragazzi penalizzati in condotta, definiti “facinorosi”, magari per aver occupato un aula per tenere un’assemblea: “Dovrebbero ringraziare perchè, avrebbero meritato anche una denuncia penale».Dicono che sia il ghost writer del Presidente del Consiglio, se così fosse si spiegherebbero diverse cose.

Tra i tanti cambiamenti che ci sono stati, infine, non è rientrata una revisione della regola sugli “ottisti”, rimasta così invariata. Una norma curiosa e da pochi conosciuta che consente, a coloro che si presentano al quarto anno di studi con almeno tutti otto in pagella e senza aver contratto debiti formativi nei due anni precedenti, di essere ammessi agli esami di maturità con un anno di anticipo. Viene da chiedersi se in Italia ne esista ancora qualcuno, ma anche se fosse, con quale grado di preparazione questi “genietti a metà” si presenterebbero all’Università dopo aver saltato l’ultimo e decisivo anno di studi secondari? Ce lo spieghino magari i privatisti…

IN ITALIA|Termini imerese: tute blu in lotta per continuare a produrre le Lancia

Nuovo sciopero a uno stabilimento del Lingotto. Domani l’incontro con i sindacati. Titoli Fiat in calo

di Simone Di Stefano/Dazebao, l’informazione on-line

TERMINI IMERESE – Lo avevano minacciato tre giorni fa e ora sono passati ai fatti: gli operai della Fiat sono di nuovo in sciopero. Ad incrociare le braccia stavolta sono le tute blu dello stabilimento di Termini Imerese, dove attualmente vengono assemblate le Lancia Y.

Esasperati per la possibile chiusura o riconversione, a seguito dell’annuncio del cambio di linea produttiva fatto giovedì scorso dall’amministratore delegato del Lingotto, Sergio Marchionne, gli operai dello stabilimento del comune palermitano hanno iniziato la settimana lavorativa alzando il livello della guardia. Due ore di sciopero, stamattina, in piena ora di punta, dalle 07:30 alle 09:30, con i lavoratori dell’azienda torinese e quelli dell’indotto a braccia conserte fuori dalla fabbrica. Le tute blu del Lingotto hanno anche bloccato, per circa mezz’ora, i binari della stazione di Fiumetorto, lungo la linea ferroviaria Palermo-Messina, causando la cancellazione di diverse corse regionali.

A decidere lo stop al lavoro di due ore è stata, questa mattina, l’assemblea del primo turno di lavoro, in rappresentanza dei 1.400 lavoratori dello stabilimento, tra operai e impiegati e di altri 600 operai dell’indotto. In questo momento gli operai sono di nuovo sul loro posto di lavoro, ma hanno annunciato che la protesta continuerà ad oltranza, fin dal pomeriggio, in attesa di ricevere un’eventuale convocazione per la discussione annunciata dall’assessore regionale all’Industria, Marco Venturi, prevista per domani a Palazzo d’Orléans e dove parteciperanno anche il governatore della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo e i sindacati regionali e di categoria. Nel tavolo di confronto di domani sarà varato un documento unitario da sottoporre alla Fiat, alternativo rispetto alle previsioni del Lingotto che conta di tagliare la produzione di automobili nello stabilimento siciliano dal 2011.

«Nella vertenza Fiat il governatore Raffaele Lombardo recuperi il tempo perduto. E tolga ogni alibi alla casa del Lingotto», chiede il segretario regionale della Fim Cisl, Salvatore Picciurro, alla vigilia dell’incontro di domani. Per il sindacalista, le dichiarazioni di Marchionne sul prossimo assetto di Termini Imerese rendono il futuro dello stabilimento siciliano «problematico e incerto». Per questo, «occorre un impegno chiaro delle istituzioni, a tutti i livelli, a partire da quello regionale». A Lombardo, precisa la Fim Cisl, «chiediamo d’intervenire su Roma e Torino e di rilanciare, grazie al tavolo con sindacati e imprese, le condizioni di una rinnovata competitività del comprensorio termitano». Anche in forza, sottolinea il sindacato, di un «contratto di programma che Fiat per un verso, il governo nazionale per un altro, sono chiamati ad attuare».

Intanto, rispondendo a una precisa richiesta avanzata dal capogruppo di Rifondazione Comunista, Antonio Marotta, questa mattina il Consiglio Provinciale di Palermo ha proposto l’Ente Provincia come capofila di un tavolo con i comuni del comprensorio termitano per affiancare organizzazioni sindacali e maestranze della Fiat di Termini Imerese. Ad annunciarlo il Presidente provinciale, Giovanni Avanti: «Un’azione comune – ha detto Avanti – per sostenere una realtà produttiva di primo piano del territorio provinciale e per capire quale piano industriale ci sia dietro questo annuncio. Sull’opportunità di questa iniziativa abbiamo discusso con il neo sindaco di Termini Salvatore Burrafato». E lo stesso Marotta: «La Provincia deve attivarsi così come ha fatto nel 2005, con una presenza forte che deve vedere anche la partecipazione del Consiglio provinciale per affrontare una questione che preoccupa giustamente i dipendenti, le loro famiglie e l’indotto». «Insieme al presidente Avanti – ha concluso il presidente del Consiglio provinciale, Marcello Tricoli – saremo presenti nel tavolo con i sindacati e i dipendenti per un confronto con l’azienda che dovra’ fare chiarezza sul futuro dello stabilimento termitano».

Lo sciopero degli operai termitani, assieme al no del piano Marchionne da parte dei sindacati, la Fiom in testa, potrebbero essere all’origine della caduta del titolo in borsa del Lingotto, in rosso (-2,67%), nonostante dalla Germania si dicano certi di non ritenere ancora chiusa la partita sulla Opel. Secondo il Financial Times il fallimento dell’accordo con la Opel costituirebbe per la Fiat una difficoltà ulteriore nello smantellamento degli stabilimenti di Termini e Pomigliano d’Arco. «Il declino del centrosinistra – scrive l’autorevole quotidiano finanziario londinese- ha indebolito i sindacati e il consolidamento del gruppo a livello mondiale, con i plausi del presidente americano Barack Obama, hanno spinto l’orgoglio italiano. L’accordo Opel però, dopo quello con Chrysler, avrebbe fornito una copertura politica alla chiusura degli stabilimenti Fiat della Sicilia e di Napoli». In conclusione, il fallimento dell’intesa con i tedeschi «renderà più difficile spiegare il piano di restringimento della produzione nel Paese».

La protesta degli operai termitani si pone in continuità con quanto accade in quasi tutti gli altri impianti della Fiat nello stivale, non ultima la chiusura, per oltre una settimana, degli stabilimenti Fiat di Melfi “Plastic Components” e “Sistemi sospensioni”. Un blocco che, a causa della sospensione dal lavoro di 13 operai della Magneti Marelli e della minaccia di blocco di oltre 80 situazioni contrattuali, portò a un calo di produzione di ben 7000 unità, prima che si giungesse a un accordo tra le parti. E anche il sito siciliano non è la prima volta che dichiara guerra all’arma bianca alla casa automobilistica di Torino. Già sette anni fa le tute blu scesero per strada e bloccarono il comune del palermitano evitando così una chiusura che allora sembrava in dirittura di arrivo. «Come allora anche oggi – dice Roberto Mastrosimone della Fiom Cgil – impediremo i piani di quanti vogliono ancora una volta penalizzare Termini Imerese. Iniziamo con lo sciopero e l’occupazione dei binari della stazione, ma non ci fermeremo».

POLITICA|Referendum elettorale. La “riforma” che inaugura il partito unico. I tre quesiti

di Simone Di Stefano/Dazebao, l’informazione on-line

«Ma si nota di più se ci vado o non ci vado?». La famosa frase di Nanni Moretti rischia di diventare il tormentone del prossimo referendum sulla legge elettorale Segni-Guzzetta. «Il referendum è come Josè Mourinho, al 99,9% non raggiungerà il quorum».

Non è Moratti che lo dice, ma il presidente della Swg sondaggi, Roberto Weber, convinto che la legge elettorale rimarrà quella ideata dall’allora ministro delle riforme istituzionali, Roberto Calderoli. Quella legge che poi fu etichettata dal suo stesso autore come una «porcata» e per questo ribattezzata dalla stampa come legge «porcellum».

Il guazzabuglio mediatico degli “inciuci” privati del premier, assieme alle liti interne al Pd, hanno mandato in cavalleria il dato più interessante e allo stesso tempo allarmante delle scorse elezioni europee: più del 35% dell’elettorato italiano ha disertato le urne. Sarà per questo che adesso coloro che parteggiano per l’astensione puntano forte sui passivi, per mettere in soffitta una riforma, quella referendaria, che a detta di molti sarebbe la morte della democrazia. E, questa è la vera novità, la pensano così esponenti di partiti di opposte vedute politiche, oltre che una parte di scissionisti in seno alle singole coalizioni.

Il meccanismo referendario e i quesiti

Per spiegare comunque ai lettori i dettagli di cosa si troveranno a decidere tra domenica e lunedì prossimi, conviene quindi specificare che, nel caso di un referendum abrogativo (in Italia è l’unica forma di consultazione popolare diretta consentita), conta, eccome, il dato di quanti andranno a votare. Per avere validità, infatti, l’eventuale «sì» dovrà avvalersi del 50,1% degli aventi diritto al voto.

Gli italiani che domenica e lunedì prossimi rinunceranno al mare per andare a votare si vedranno consegnate nelle loro mani tre schede di differente colore. Quella verde prevede l’abrogazione delle candidature multiple, cioè, della possibilità di essere candidato alla Camera attraverso l’elezione in più circoscrizioni. L’abrogazione viene estesa anche al Senato. Se vinceranno i sì, ogni candidato potrà essere in lista in una sola circoscrizione elettorale e il premio di maggioranza andrà soltanto al partito più votato. E questo apre il dibattito sulle altre due schede, quella viola che riguarda la Camera e quella beige che riguarda il Senato. Si chiede all’elettore se è d’accordo ad assegnare il premio di maggioranza alla lista (e non alla coalizione) più votata. Questo comporterà l’abolizione, per i partiti che concorrono all’elezione, della possibilità di collegarsi tra loro e di attribuire il premio di maggioranza alla coalizione, e non al singolo partito, vincente. Per capirci, non potrebbero più esistere coalizioni come l’Unione, che arrivò a governare con la somma dei voti di diversi partiti politici.

Le due schede presentano quesiti simili, ma differenti per quanto riguarda la soglia di sbarramento: del 4% alla Camera, fino all’8% al Senato. Una vittoria dei «sì» significherebbe la morte certa della maggior parte dei partiti italiani, con la sopravvivenza soltanto di due grandi poli, entro cui confluire. La Lega, per fare un esempio, che ora tiene sotto stretto ricatto il Premier, perderebbe qualsiasi forma di rappresentanza in quanto il Pdl potrebbe governare comunque con il pacchetto di maggioranza. Allo stesso modo, l’Italia dei Valori rischierebbe addirittura di non entrare al Senato. Per non parlare di tutti i partiti della sinistra storica, già relegati all’esilio dalla Legge Caledroli, si vedrebbero ulteriormente annichilite le possibilità di una ripresa. Nascerebbe un bipartitismo più che perfetto, ma figlio di una legge che assegnerebbe ben il 55% dei seggi, in ambo le camere, al partito che raccoglie la maggior parte dei voti. Per capirci, la Legge Acerbo che legittimò l’ascesa al potere del partito fascista, nel 1924, prevedeva la stessa soglia minima di voti al 25 %, consegnando i due terzi della maggioranza in mano al partito vincente.

I ‘No’ i ‘Si’ e gli astensionisti

È per il no il Prc, che dal suo sito lancia l’appello “Giù le mani dalla democrazia. No al Referendum”, mentre il costituzionalista Gianni Ferrara, in un editoriale apparso oggi su Liberazione, parla di inganno, schierandosi al fianco di tutti quei piccoli partiti, «rappresentanza di quelle minoranze che possono raccogliere anche milioni di elettori (10 milioni e 923.598 quelli che hanno votato per liste che hanno ottenuto più di 500 mila voti alle elezioni del 7 giugno), minoranze che restano refrattarie ad inquadrarsi nei due partiti del modellino istituzionale idolatrato». Anche Sinistra e Libertà si schiera per il no, appoggiata dai Socialisti. Il Pdl, dal canto suo, anche se espressione della preferenza di meno di un terzo del paese, con il ‘Si’ porterebbe a casa l’intero baraccone di seggi, garantendosi per cinque anni la possibilità di legiferare a proprio piacimento, senza alcuna limitazione o compromesso con il Parlamento.

Antonio Di Pietro, tra i primi sostenitori del referendum, annuncia la svolta senza mezzi termini e dichiara di votare no, «ma sarà un no ‘a malincuore’ – ha detto l’ex pm – perché non si può permettere di andare verso un regime, con una legge che permetta a un partito del 30% di occupare il 60% dei seggi in Parlamento e riformare la Costituzione da solo». Un motivo in più per cui inizialmente Berlusconi paventava l’idea del colpo di spugna al compare Umberto. Dopo il marasma di voti che ha raccolto il Carroccio alle Europee è stato però lo stesso Bossi a procurarsi le dovute garanzie da Silvio: in cambio dell’astensione del Pdl, la Lega ha promesso di convogliare i suoi voti ai ballottaggi, che avverranno lo stesso giorno. E il “patto di Arcore” ha già dato i suoi frutti se è vero che il candidato del centrodestra alla Provincia di Milano, Guido Podestà, ha fatto sapere che non prenderà la scheda del referendum.

La concomitanza con le amministrative potrebbe tuttavia giocare a favore del raggiungimento del quorum, dato che molti elettori non sanno che possono comunque rifiutare la scheda del referendum senza compromettere la votazione dei ballottaggi amministrativi. Roberto Maroni prima istruisce: «Attenzione a non sbagliare. Chi vota per il ballottaggio dove ci sono candidati nostri deve andare e dire subito di non voler ritirare la scheda del referendum». Poi, lancia il diktat: «Darò istruzioni precise ai presidenti di seggio – ha tuonato il ministro dell’interno – perché non facciano i furbi e farò mettere cartelli chiari. È un diritto non ritirare la scheda e per i leghisti non solo è un diritto ma un dovere». «Maroni – la replica dei referendari – non si comporti come il ministro di una Repubblica delle banane: il ministro dell’Interno deve tacere e agire solo attraverso gli atti ufficiali, come le circolari».

POLITICA|Padova al ballottaggio. Una prova importante per il centrosinistra veneto

Decisive saranno le indicazioni di voto di Udc e Beppe Grillo

di Simone Di Stefano/Dazebao, l’informazione on-line

Archiviate le elezioni europee e gran parte di quelle amministrative restano da definire le sorti di quei comuni che andranno al ballottaggio. Sarà un altro banco di prova importante per verificare la tenuta del centrosinistra, soprattutto in quelle circoscrizioni dove si è andata esaurendo la spinta dei voti della coalizione e, gioco forza, si dovrà far leva sulle indicazioni delle liste escluse dal voto.

E se Bologna e Firenze sono storiche roccaforti rosse che rischiano ora di passare dall’altra parte, particolare attenzione merita anche il ballottaggio per la carica a sindaco di Padova.

Non sarà facile per la coalizione di centrosinistra uscire indenne in uno dei più grandi comuni del Veneto, dove a farla da padrone è il Pdl e la Lega. Seppur separati, alle europee i due partiti dell’attuale maggioranza al governo hanno totalizzato, nella circoscrizione nord orientale, più della metà dei seggi, trovando sulla loro strada soltanto l’opposizione del Pd. A Padova, tuttavia, si gioca in una situazione di sostanziale equilibrio, un bipartitismo perfetto che segna da un lato, con il 45,7%  delle preferenze, il sindaco uscente del Pd, Flavio Zanonato, dall’altra, con il 44,9%, l’esponente del centrodestra, Marco Marin, dentista ed ex olimpionico.
Nel comune patavino il dato percentuale premia su tutti il partito di Franceschini, che risulta essere il più votato (28,4%), seguito da Pdl (23,8%) e Lega (11%). A pesare dalla parte di Zanonato è stata la lista civica Padova con Zanonato, ma anche una coalizione formata da Idv, Sinistra per Padova, Prc, Pdci e Partito Socialista.
Cosa deciderà le sorti di questa importante piazza? Il ballottaggio dello scorso anno a Roma può servire da esempio. Alemanno scalzò Rutelli dal Campidoglio nonostante il candidato del Pd si presentava allo spareggio con una buona dose di vantaggio. A pesare a Padova potrebbero essere i voti degli elettori di Udc e Lista Grillo. La prima lista è il serbatoio più ampio con il 3,3% del totale, interlocutore privilegiato del Pd – così ha sostenuto Casini prima del voto del week end -, mentre lo showman anti-casta ha totalizzato l’1,1% delle preferenze. Difficilmente potrebbero far pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra i voti delle liste della destra estremista, poco cospicui. Insomma, se ci sarà una forte affluenza, cosa tutta da verificare, il centrosinistra potrebbe approfittare dei voti di Pierferdi e di Beppe Grillo, mentre il Pdl ha già esaurito i jolly a disposizione.
La questione di Padova sarà l’ultimo tassello per il PD in tutto il Veneto. E in seno alla sezione veneta del Pd si apre la questione del rinnovamento, con un occhio particolare ai risultati delle europee. «Il nostro risultato qui è in linea con quello nazionale – ha spiegato il senatore e segretario regionale del Partito Democratico del Veneto, Paolo Giaretta – e certamente non ci può soddisfare perché restiamo poco sopra il 20%. È evidente che lo scontro PDL-Lega ha finito per monopolizzare la contesa, tuttavia bisognerà attendere i risultati delle amministrative. Il PD in molte realtà importanti ha tenuto anche sul voto delle europee».

«Non dobbiamo però trascurare un elemento – ha concluso il segretario regionale -. Dal voto di preferenza arriva alla dirigenza una forte richiesta di rinnovamento. Bisognerà tenerne conto con coraggio e con coerenza anche nella vita interna di partito».

INTERNAZIONALE|Regno Unito. Non c’è tregua per il Labour. Altri ministri abbandonano Brown

La questione morale sui rimborsi spese miete vittime illustri nella maggioranza. 4 dimissioni in un giorno

 

di Simone Di Stefano/Dazebao, l’informazione on-line

Come perdere le elezioni in 24 ore. Suona come il titolo di una saga di Walter Hill, ma è quello che secondo la stampa britannica sembra si stia profilando all’orizzonte del partito Laburista e del suo leader, il Primo ministro Gordon Brown. In un solo ciclo solare, infatti, sono ben quattro i ministri che hanno annunciato la volontà di non far più parte della coalizione di governo.

Alle dimissioni dell’Home Office Jacqui Smith, coinvolta nello scandalo dei rimborsi spesa sollevato dalle pagine del Daily Telegraph, di Beverly Hughes, ministro dei Bambini, e di Tom Watson, ministro di Gabinetto, si sono aggiunte nelle ultimissime ore quelle di Hazel Blears, ministro per le Comunità.

Coinvolta anch’essa nello scandalo dei rimborsi spesa, Ms. Blears, ha annunciato la sua decisione circa due ore prima del consueto Question Time del mercoledì presso la Camera dei Comuni, adducendo motivazioni di carattere ben più nobile di quelle che in realtà si sono dimostrate le cause. «La mia politica – ha spiegato il ministro dimissionario – ha sempre poggiato sulla convinzione che la gente ordinaria è capace di compiere cose straordinarie, se adeguatamente sostenuta ed incoraggiata. Non ho mai perseguito come tale il fine di ottenere alti incarichi, né l’ho fatto per il guadagno che potrei trarne, ma per quello che posso ottenere per la gente che rappresento e per la quale sono al servizio». L’equivalenza è d’obbligo e ci suona come: ne ho abbastanza di tutto questo tram tram mediatico, torno a fare politica dal basso.

Una questione morale che investe il governo a tutto tondo e che prende linfa dai filmetti pornografici trovati in una delle voci dei rimborsi spesa di Jacqui Smith la quale, stroncata dalle manie erotiche del marito, da lunedì sarà senza lavoro. Un caso che grazie alla sferzante pressione dei media anglosassoni ha visto cadere uno dopo l’altro ben quattro esponenti di altissimo profilo del partito di maggioranza. E non è bastato a Ms. Blears, pur di gettare acqua sul falò mediatico, aver rinunciato all’incasso di 13.000 sterline per una transazione immobiliare.

La risposta di Victoria Street è arrivata, stringata ma con vero aplomb d’oltremanica, per voce del suo stesso segretario, Gordon Brown, che ha dichiarato in un comunicato di «rispettare e comprendere la decisione di Hazel Blears, la quale ha apportato un contributo eccezionale alla vita pubblica».

Ma questa ennesima dipartita getta ancora più nella melma uno dei più deboli e mal visti leader dei Labour, con mezza coalizione da ricostruire, verosimilmente all’indomani delle europee che i media britannici, di destra e di sinistra, dipingono già come una Waterloo per il partito del Lavoro. Un’azione di moral suasion è stata svolta, è il caso di sottolineare, dal quotidiano di sinistra The Guardian, arrivato ad affermare in un editoriale che «è giunto il momento di sbarazzarsi» di Gordon Brown. È il definitivo volta faccia della classe intellettuale di sinistra all’antipatico capo della socialdemocrazia insulare? La stampa dell’opposizione ne approfitta e il Daily Mail oggi titola «I topi lasciano la nave».

Per i media britannici, tuttavia, l’erede di Blair non ha alcuna intenzione di andarsene da Dowining street. Più probabile che proceda a un rimpasto, ma non prima di lunedì, a meno che al premier non venga forzata la mano. Oltre alle dimissioni di Smith e degli altri ministri, il prossimo a fare le valige, in questo effimero effetto a cascata, potrebbe essere il Cancelliere Alistair Darling, dopo che neanche più il premier se l’è sentita di inserire il suo nome tra i sicuri. Secondo indiscrezioni il più accreditato a succedergli è il ministro dell’Infanzia Ed Balls, fedele alleato di Brown. Ma il toto nomine vede anche il ministro del Commercio, Peter Mandelson, alleato dell’ex capo del governo Tony Blair, promosso agli Esteri al posto di David Miliband.

Secondo un sondaggio realizzato dall’istituto Ipsos Mori, il Labour ha perso 10 punti in un mese. Accreditato di solo il 18% dei suffragi, si situa a 22 punti dai conservatori ed esattamente allo stesso livello dei liberal-democratici. Della querelle potrebbero approfittare non solo i Tories di David Cameron. Perché se è vero che nello scandalo sono finiti anche sei esponenti tra i conservatori, è anche vero che stando alle percentuali molto probabilmente conquisteranno il primo posto tra i partiti. Il nuovo clima quindi potrebbe andare incontro ai partiti minori, tra cui lo Ukip, che chiede esplicitamente il ritiro della Gran Bretagna dall’Unione europea, o i Verdi che al contrario vorrebbero il Regno Unito maggiormente coinvolto a Bruxelles.

IN ITALIA|Informazione. Sei reti televisive nelle mani di un solo (noto) individuo

Iniziative della Federazione della stampa. Le minacce di Berlusconi contro i giornalisti. Il peso del conflitto di interessi


di Simone Di Stefano/Dazebao, l’informazione on-line

Il pluralismo dell’informazione sta subendo un duro attacco e, fatto ancor più grave, la causa del suo declino è da ricondurre a conflitti di interesse e perdita costante di autonomia dei mass media. Meccanismi di controllo del servizio pubblico che tendono sempre più ad accentrare nelle mani di un solo individuo ben sei reti televisive, privatizzazioni e testate giornalistiche sempre più dipendenti dai voleri dei loro editori, leggi sulle intercettazioni su cui il governo ha posto la fiducia. In Italia viviamo come normalità un premier che minaccia i giornalisti nelle conferenze stampa e vede come extraterrestri testate che ritengono di interesse pubblico fatti a lui riconducibili, come il caso Noemi. Abbastanza carne al fuoco, insomma, per preoccupare la Federazione nazionale della stampa italiana(Fnsi) e Usigrai, che hanno promosso nella giornata odierna una conferenza dal titolo “Per l’autonomia dell’informazione nel servizio pubblico, in tutti i media”, convegno cui ha aderito da Articolo21, da tempo in campo per la difesa della libertà di informazione.

Presenti al dibattito, molto partecipato, esponenti politici, giornalisti. “C’è un’aria che non ci piace, dal diritto di cronaca al peso del conflitto d’interesse e alle relative manifestazioni di insofferenza della carta stampata”, ha riferito il presidente della Fnsi, Roberto Natale, ai microfoni della Rai. Riguardo la prospettiva del referendum sul contratto che si terrà domani, il capo del sindacato unitario dei giornalisti ha aggiunto: “Il contratto è un punto di equilibrio, speriamo che domani i giornalisti votino massicciamente perché crediamo fin ora di aver preso le difese dei nostri colleghi. Il contratto nazionale – ha continuato l’ex segretario del sindacato Rai – serve a tutti, per questo lo abbiamo chiamato Contratto generazionale. Ma servono anche regole sul conflitto d’interesse, uno statuto delle imprese editoriali, perché troppo spesso gli editori hanno interessi collaterali e in questo c’entra la lottizzazione che grava sulla libera informazione”.

“Una pagliacciata continua”, così ha  esordito il Segretario della Fnsi, Franco Siddi, riferendosi all’informazione italiana attuale, una situazione di disagio, soprattutto “quando i nostri giornalisti si trovano a confronto con i loro colleghi stranieri”. Infine una battuta sulle nomine Rai. “Voglio pensare che il presidente di garanzia abbia votato nell’interesse dell’azienda. Tuttavia si è creato un problema politico nello schieramento dei consiglieri di opposizione”. Per questo, ha concluso Siddi, “sarebbe importante, se Garimberti ha seguito un metodo tutto aziendale, che nelle prossime nomine emergano scelte che non abbiano nulla a che vedere con organigrammi circolati nelle ultime settimane e nate in palazzi privati”.

“Ma il fatto che non siamo riusciti attraverso la legge a combattere il conflitto d’interesse non può dare adito a scagliarsi contro l’opposizione”. Questo il ragionamento dell’ex ministro della Comunicazione, il democratico Paolo Gentiloni, le cui parole hanno toccato anche i fili tesi della par condicio. “Sulle reti Mediaset – ha spiegato Gentiloni – c’è un rapporto di otto a uno, uno squilibrio di trattamenti. Inoltre mi sorprende come su argomenti che la stampa ritiene di interesse pubblico, come il caso di Casoria, Berlusconi non ha fornito alcuna spiegazione, ritenendola una cosa normale”.

Mentre Carlo Verna, segretario dell’Unione sindacale giornalisti Rai si concentra sulle nomine, “una cartina tornasole che non sbaglia reazione. Mi domando cosa farebbero i tifosi della Roma se fosse Lotito a decidere gli acquisti dei giallorossi, o i laziali se il futuro dei biancocelesti si decidesse a casa Sensi. Per di più, rimanendo nella metafora calcistica, si conviene, tra le pareti domestiche dell’ avversario in campo, di comprare giocatori costosi e capaci di coprire ruoli che chi già veste quelle maglie è in grado di svolgere. Insomma, mentre i vertici aziendali si stracciano le vesti per la crisi economica, arrivano esterni ad esautorare le risorse umane già presenti”. Parole che fanno da sfondo a quelle ancora più dure riferite dallo stesso Verna alla Commissione di vigilanza Rai, colpevole, sempre secondo il sindacalista di aver dato segnali “troppo timidi”, soprattutto se rapportati a quelli dati invece dal presidente della Commissione, Sergio Zavoli.  

INTERNAZIONALE|Afghanistan. Imboscata dei talebani. Ferito un parà italiano

Il militare è stato colpito a un braccio. Subito ricoverato è fuori pericolo

di Simone Di Stefano/Dazebao, l’informazione on-line

Un’imboscata in piena regola, il criterio è quello della guerriglia, colpisci e scappa. Ed è l’ennesimo attacco che i soldati italiani subiscono in Afghanistan, da quando lavorano per riportare la pace e scalzare i talebani da quel potere territoriale che rende invise agli occhi della popolazione locale le forze internazionali.

Stavolta per poco non ci scappava il morto. Siamo ad Akazai, un villaggio che dista circa cinque chilometri da Bala Murghab. La provincia è quella di Badghis, a nord di Herat, la capitale dell’ex stato sovietico. Una pattuglia della Folgore svolge la sua consueta ronda sul territorio, quando attorno alle ore 13 italiane, le 15:39 locali, si sentono degli spari. Immediatamente i soldati della divisione italiana rispondono al fuoco incrociato che molto probabilmente arriva da dietro dei ripari di roccia. Non è chiaro ancora se nello scontro a fuoco sia rimasto ferito anche qualche guerrigliero talebano, ma un soldato della Folgore viene colpito di striscio da una scheggia riportando una lieve ferita al braccio. Ciò che è importante è che comunque il paracadutista, «non è in pericolo di vita». Si chiama Alessandro Iosca, ha 23 anni ed è di Roma. È quello che hanno fatto sapere fin da subito dal quartier generale italiano di Camp Arena, nel cui ospedale il giovane verrà trasferito dopo essersi sottoposto ai primi soccorsi.

Il generale Rosario Castellano, Comandante della Regione Ovest ha chiamato i genitori del militare ferito per rassicurarli sulle condizioni di salute del figlio, dopodiché la notizia è stata comunicata al ministero della Difesa, attraverso il Comando Operativo di vertice Interforce. Non appena appreso il fatto il ministro della difesa, Ignazio La Russa, ha subito espresso la vicinanza al paracadutista coinvolto, formulando sentiti auguri per una sua pronta guarigione.

Ma l’attacco dei taleb ai soldati italiani non è un caso isolato e non solo perché i ribelli vogliono legittimare la supremazia sul territorio. Sembra più che altro far parte di una strategia volta a dare una sterzata ai colloqui sempre più fitti delle ultime ore, tra mediatori afgani e gli stessi ribelli.

I talebani chiedono un calendario per il ritiro delle forze militari internazionali per partecipare poi a un processo di pace e di conciliazione nazionale. Insomma, secondo i talebani non può esserci processo di pace con le truppe straniere tra i piedi.

In una recente intervista al New York Times, Asallah Rahmani, ex ministro del regime talebano e oggi uno dei mediatori più accreditati, ha riferito di non rivolgersi «a gente di basso rango, ma ai leader», auspicando il coinvolgimento dei politici più influenti tra quelli delle forze di pace in istanza nel suo paese. Un ruolo fondamentale nel corso della mediazione è stato svolto dall’insediamento alla Casa Bianca di Barack Obama, che peraltro aveva riconosciuto nella nuova strategia per la regione l’opportunità di cooptare gli insorti moderati nel processo di pacificazione.

La guerra e i raid americani hanno costretto i vertici del movimento dei talebani ad abbandonare i loro tradizionali nascondigli, i loro covi migliori che si trovavano al confine con il Pakistan, ma restano pur sempre molte le zone dove l’influenza dei guerriglieri è riconosciuta. A Ouetta, nel Baluchistan, c’è la base dove si sono svolti diversi colloqui e dove risiede il consiglio dei talebani presieduto dal Mullah Omar. Lo stesso Mullah ha preso parte a diversi incontri con i rappresentanti di Gulbuddin Hekmatyar, e con Sirajuddin Haqqani. Gli Usa continuano a smentire che ci siano stati contatti di qualsiasi tipo, ma allo stesso modo esistono esponenti della diplomazia americana che sono stati riconosciuti a dei colloqui. Resta poi per Washington la grana maggiore con cui dover fare i conti, il modus operandi della Casa Bianca, ormai risaputo in tutto il mondo e perfettamente coincidente alla exit strategy americana.

di Simone Di Stefano/Dazebao, l’informazione on-line