• i più letti

  • archivio

  • RSS notizie

    • Si è verificato un errore; probabilmente il feed non è attivo. Riprovare più tardi.
  • fin dove arriva la nostra voce

  • temi

Kevin Rudd: “l’Australia non è un paese razzista”

DSC_0246

Il dibattito sugli scontri tra culture e sulle difficoltà di integrazione è salito alla ribalta questa settimana in Australia, a seguito di eventi criminosi

 

 

Alcuni incidenti xenofobi, registratisi nelle principali città australiane negli ultimi mesi, hanno creato un clima di diffidenza in alcune comunità, fino a portare ieri molti tra gli indiani che vivono lì ad ipotizzare una matrice razzista nel caso di un omicidio di cui non è stata accertata la ragione (la vittima era uno studente e lavoratore proveniente dall’India).

La dinamica del brutale omicidio, condotto dando fuoco alla vittima, e l’uccisione pochi giorni fa di uno studente indiano anche lui, accoltellato, hanno diffuso più che inquietudine.

Non sono emersi però, secondo quanto rilevato dagli inquirenti, segni di matrice razzista e Kevin Rudd, primo ministro australiano, ha rigettato pubblicamente l’immagine di un paese che non accetta gli stranieri diffusa da alcuni.

L’Australia difatti è una nazione nata dall’immigrazione, rientra negli altissimi standard di apertura alle culture di recente arrivo tipici del mondo anglosassone ed è uno degli stati che fa di più per favorire l’integrazione dei nuovi cittadini attraverso l’istruzione ( assieme all’ U.K ).

La società australiana sta cambiando rapidamente, anche con l’insediamento di tanti cittadini asiatici ed è vero che si registrano gravi casi di intolleranza da parte di alcuni settori della società. Ma la stragrande maggioranza della popolazione si distingue per attivismo in favore di un equilibrio multiculturale.

Tim Watts, consulente del governo di Canberra e della compagnia di comunicazione Telco, ha messo in piedi un gruppo antirazzista nel suo paese e riecheggiando quanto detto da Kevin Rudd ha affermato che l’Australia non è un paese intollerante, tutt’altro, e che proprio per questo è opportuno preservare l’eccezionale tradizione di ospitalità e di comprensione da parte della comunità australiana, alimentando, anche per il futuro le condizioni che permettono lo scambio culturale e l’integrazione.

Watts però solleva un problema che non è soltanto del suo paese, sottolineando che la legislazione a volte è equivoca nel permettere a minoranze intolleranti ed anche a esponenti istituzionali di alimentare invece gli ostacoli verso gruppi di persone in via di inserimento nella comunità, e soprattutto che le istituzioni da sole non bastano ed occorre far lavorare la cultura, processo molto più lento dei grandi cambiamenti globali che sollevano disagi e paure.

Il consulente passato all’attivismo in favore dei diritti è uno dei tanti esempi delle naturali tendenze all’integrazione da parte della maggioritaria società australiana, in linea con la tradizione liberale di questo paese e delle società culturalmente affini .

Aldo Ciummo

DA EUROBULL | Una opinione sugli accordi in materia di clima

L'inquinamento minaccia l'ecosistema e con questo economia e rapporti sociali nel pianeta, il mondo sviluppato porta una significativa parte della responsabilità per la sorte dell'ambiente e di quale sarà la sua fisionomia futura

Oggi il sito propone – augurando buone feste ai lettori – l’invito alla lettura di un articolo di Antonio Longo apparso due giorni fa sul sito dei giovani europeisti, una opinione ed una esortazione ad un salto di qualità nella decisione di incidere da parte dell’Unione Europea di cui questi paragrafi sono l’introduzione. Longo esamina le ragioni degli insuccessi registratisi al vertice di Copenaghen

 

Quando un vertice così atteso si chiude con un accordo pressoché inesistente, un inevitabile senso di frustrazione e di impotenza pervade l’opinione pubblica, perfettamente consapevole del fatto che è in gioco il bene pubblico mondiale per eccellenza: il futuro di questo pianeta, a partire dalle prossime generazioni.

Ogni ‘gioco’ che riguarda la società nel suo complesso, nella sua parte più piccola (un semplice quartiere) come nella sua più grande (il mondo intero) viene giocato, come sempre, con le regole della politica. Ma le regole della politica che conosciamo sono ancora quelle della politica nazionale, mentre il bene pubblico in discussione – la salvezza del pianeta – è mondiale.

Qui sta la vera contraddizione, che quasi nessuno mette in evidenza, riducendo il tutto alla buona o la cattiva volontà dei governanti. Il problema non è tanto la loro buona o cattiva volontà, quanto il quadro di potere entro il quale agiscono. Se il quadro politico è nazionale, il loro punto di vista non può che essere nazionale. Xie Zenhua, capo-delegazione cinese a Copenhagen, lo ha detto in modo chiarissino: “Noi cinesi abbiamo preservato il nostro interesse nazionale e la nostra sovranità”.

Ma anche gli altri, americani, indiani, e via di seguito, ragionano allo stesso modo: al tavolo di qualsiasi trattativa internazionale ogni capo di governo si pone sempre il problema di cosa porta a casa per il proprio paese, non per l’intera umanità (per continuare la lettura, visitare il sito www.eurobull.it)

(questo è un articolo di Antonio Longo, l’articolo nella sua interezza si trova su Eurobull ed i pochi paragrafi pubblicati su www.skapegoat.wordpress.com rappresentano un invito a visitare Eurobull: nessun amico dell’Europa è un concorrente, NdR)

Occupazione e ambiente, l’esempio di Londra

Stephen Lowe, consigliere per gli Affari Globali dell’ambasciata britannica a Roma, in una recente intervista all’agenzia nazionale Ansa ha stimato in 800.000 i posti di lavoro creati nel settore ecosostenibile di beni e servizi. Si avvicina Copenaghen e sul piatto c’è un accordo importante per il futuro del pianeta. I paradisi del Pacifico sono a rischio e in Europa un innalzamento della temperatura e del livello dei mari colpirebbe molto duro a Nord come a Sud (ed anche in Italia)

 

Una ricerca, presentata oggi dall’ambasciatore britannico in Italia, Edward Chaplin, e di cui le maggiori agenzie hanno dato notizia, illustra gli effetti pesantissimi che il cambiamento climatico sortirebbe. Lo studio è una mappa interattiva tracciata dal MET, servizio metereologico britannico. Tra ottanta anni in Italia la temperatura potrebbe essere di otto gradi maggiore rispetto alla media nei giorni più caldi dell’estate, si immaginino le conseguenze cliniche su una parte significativa della popolazione, in un paese abitato da molti anziani e naturalmente esposto alla diffusione di malattie di importazione, in un mondo globalizzato.

Non solo per l’Italia, ma per tutto il Mediterraneo, una massiccia riduzione delle risorse acquifere significherebbe non soltanto l’acuirsi di problemi sociali già difficili a causa di inefficienze ed iniquità distributive (ed anche come conseguenza di problemi strutturali ed infrastrutturali), ma anche una riduzione delle risorse agricole capace di portare a contrazione della ricchezza, aumento della disoccupazione e disagi alimentari in alcuni paesi dell’Africa e del Medio Oriente.

Stephen Lowe ha reso noto che nel Regno Unito 800.000 posti sono stati creati nel settore della economia ecosostenibile, tra il comparto dei beni e quello dei servizi. D’altronde l’Inghilterra gode di una prospettiva maggiore di quella di molti altri paesi riguardo alle vicende globali, cui di certo non è estranea la profonda conoscenza storica dell’area del Pacifico, una delle più minacciate dalle trasformazioni indotte dall’inquinamento. Pensare al clima oggi è infatti innanzitutto un atto di responsabilità verso i paesi più fragili anche economicamente ed ad esempio verso gli arcipelaghi del Pacifico la cui tutela è un test valido per il resto del pianeta perchè essi rappresentano l’equilibrio tra uomo ed ambiente.

Nauru, isole Salomone, Marshall, Fiji, Kiribati, Tuvalu, Palau infatti rilanciano rispetto agli obiettivi del mondo sviluppato e chiedono una riduzione del 40% delle emissioni nocive entro il 2020. L’Europa ha proposto il venti per cento (riprendiamo questi dati dall’Ansa). Nel caso tutti gli stati contribuiscano, si penserebbe di fissare l’obiettivo del 30%. I paesi meno sviluppati vogliono che sia riconosciuto il diritto di promuovere quella che è un pò la loro rivoluzione industriale e che le nazioni più ricche li aiutino, se vogliono che tutti costruiscano una economia verde.

Un segnale molto positivo, anzi due segnali, sono venuti dall’annuncio di Barak Obama, che parteciperà al vertice nei giorni più importanti, seguito dal premier indiano Manmohan Singh, che ha detto che ci sarà anche lui. Rispetto agli Usa, l’Unione Europea ha fissato sempre paletti più elevati e specialmente adesso, sotto la Presidenza Svedese e con la spinta anche della Danimarca che ospita il vertice, sta lavorando per un accordo il più responsabile possibile.

Aldo Ciummo