• i più letti

  • archivio

  • RSS notizie

    • Si è verificato un errore; probabilmente il feed non è attivo. Riprovare più tardi.
  • fin dove arriva la nostra voce

  • temi

L’Europa contro tutti i razzismi

strasburgo

Oggi il Parlamento Europeo ha chiesto alle autorità egiziane e malesi di garantire la sicurezza di coloro che non aderiscono alla religione musulmana ed adottato una risoluzione che condanna tutte le forme di intolleranza.

 

In Malesia si sono ripetute, nel 2009, ingerenze del Governo nei confronti dei diritti delle minoranze divergenti dal pensiero islamico maggioritario nel paese. Già nel 2007 lo stato aveva minacciato di proibire la pubblicazione del giornale “The Herald”. Contemporaneamente, si sono registrati attacchi alla libertà dei cristiani, che stanno passando un periodo brutto anche in Egitto, dove sei cristiani copti sono stati uccisi il 6 gennaio 2010 e sono avvenuti anche molti incidenti che solo per casualità non hanno avuto esiti drammatici.

Il Parlamento Europeo ha espresso con una risoluzione (sostenuta da tutti i gruppi politici) la condanna di tutte le forme di violenza, di discriminazione e di intolleranza basate sulla religione contro appartenenti ad altre confessioni, “apostati” e non credenti. In relazione ai recenti attacchi, l’assemblea ha chiesto alle autorità malesi ed egiziane di garantire la sicurezza delle minoranze presenti sul territorio. 

Nella risoluzione si osserva che anche l’Europa conosce crimini individuali di questa natura (ed è attuale nella cronaca il tentativo di alcuni ambienti, marginali nelle comunità immigrate, di perpetuare nella nazione di arrivo tradizioni incompatibili con i diritti come intesi nella tradizione umanistica e giuridica derivante dall’illuminismo) e si auspica che Consiglio della Unione Europea, Commissione e Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri prestino una particolare attenzione alla situazione delle minoranze, nel quadro della cooperazione Ue con i paesi interessati.

Non tutti hanno libertà di pensiero e di coscienza, alle ben note forme di stato autoritario o di pressione economico militare esercitate a causa degli squilibri geopolitici ereditati dal passato si aggiungono le democrazie “controllate” del profondo est d’Europa e i regimi populisti e teocratici in Asia e altrove, dove il consenso più o meno diffuso verso i sistemi di controllo sociale tradizionali e i problemi sociali scaricati verso l’esterno, spesso verso l’occidente, produce quell’intolleranza di cui gli incidenti che poi si registrano a spese di cooperatori internazionali o comunità minoritarie rappresentano segni tangibili.

Come le guerre infinite per il controllo delle risorse (e anche per una malintesa semplificazione delle tensioni internazionali) hanno portato una significativa parte della popolazione dei paesi sviluppati ed occidentali a raggruppare culture diverse in un tutto indistinto, dipinto come dominato dalla religione e pericoloso per la sicurezza di una porzione del mondo, così una fascia non indifferente della gente comune di nazioni dove le tradizioni possono rappresentare un efficace strumento di controllo (in un contesto instabile dal punto di vista della sicurezza materiale) è coinvolta in forme di razzismo che non sono meno pericolose di quello tradizionalmente inteso.

In maniera analoga alla specularità di interventismo all’esterno (le occupazioni militari precedute dai bombardamenti mediatici e concreti) e contrazione del confronto all’interno delle società coinvolte (la diffidenza e la repressione verso alcune categorie di immigrati e per estensione verso ogni diversità) sperimentata in occidente dopo le ferite degli attentati, anche in larga parte del Sud del Mondo (e delle potenze emergenti, grandi e medie) si registra il tentativo,  da parte delle élite tradizionali, economiche, militari e religiose, di scaricare tutte le responsabilità dei problemi e le tensioni verso i paesi “ricchi” presi come bersaglio della propaganda, e di qui l’attacco contro i gruppi di persone originarie di queste nazioni, provenienti dagli USA, dall’U.K, dalla UE, contro chiunque si trovi temporaneaente nel terzo mondo oppure sia impegnato nella cooperazione e venga dai paesi sviluppati (in un immaginario che nei paesi in difficoltà finisce per costruirsi un logo uniforme di una fetta del pianeta), da qui l’ostilità verso i gruppi riconducibili alla storia del colonialismo nonostante, l’arricchimento che questi ultimi gruppi hanno portato spesso allo sviluppo della democrazia in aree dalla società complessa come i paesi in via di sviluppo.

Un argomento che su queste pagine web viene curato in maniera ricorrente è, non a caso, la necessità di non semplificare troppo, legittimando malintese pretese di decolonizzazione molto dopo la conclusione dell’era storica cui il colonialismo appartiene, e l’opportunità di ricoscere l’importanza delle comunità di origine europea nel mondo per la cultura e le istituzioni consolidatesi nel tempo grazie all’apporto di queste ultime. Le crisi regionali non si risolvono con il populismo terzomondista.

Difatti, a ben vedere lo stesso antioccidentalismo, letto in termini di puro scontro tra regioni se osservato da lontano, dai suoi destinatari, si muove in un paesaggio sociale, il mondo emergente dell’Asia, dell’Africa, spesso dell’America Latina e moltissimo negli stati a forte presenza islamica, nel quale gioca un ruolo nelle trasformazioni interne di ogni nazione presa in esame, dove l’avversario delle oligarchie e del blocco sociale che le sostiene non è all’estero ma è l’insieme di categorie e di elementi culturali che spinge verso la modernizzazione della società, e lo spauracchio delle fasce marginali che si uniscono ai fanatismi religiosi non è la libertà e il paniere di valori occidentale, se ne esiste uno uniforme, ma l’insicurezza degli ultimi in un pianeta dove il costo di questa libertà è insostenibile per molti.

Nella stessa Unione Europea, è positivo che l’Aula (sempre oggi) abbia riaffermato il ruolo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e difeso le sue decisioni in merito alla garanzia della laicità delle scuole, respingendo il ricorso contro il divieto di apporre simboli cristiani. Ma la difesa della laicità da sola non bastera e occorrerà mettere l’Europa in condizioni di intervenire nelle situazioni sociali con più peso e soprattutto lavorare sull’integrazione tenendo conto che si tratta di un processo complesso nel quale le comunità immigrate non possono essere considerate in una condizione “infantile” ma devono assicurare reciprocità nello scambio. E i paesi di provenienza degli emigranti non possono supportare queste trasformazioni in maniera fruttuosa se non avviano una tendenza di apertura anche in casa propria.

Aldo Ciummo

Il calcio gaelico diventa un ponte tra Irlanda e Svezia

 
 

Uno degli elementi più validi al quale gli emigranti si sono sempre appoggiati per coltivare il legame con la madrepatria, nel mondo globalizzato (ed all'interno dell'Europa e dell'Occidente sempre più aperto) di oggi è anche un mezzo efficace per saldare le diverse culture e rafforzarne le affinità

La comunità irlandese in Svezia, per quanto piccola, non è così sparuta, in un paese poco densamente popolato. La cultura locale, aperta alle novità, è terreno fertile per il mantenimento di tradizioni che tra i celtici sono forti, anzi, qualche svedese comincia ad essere contagiato dallo sport amato dagli irlandesi. D’altronde, le somiglianze tra i due diversi popoli esistono.

di   Aldo Ciummo

 

Patrick Reilly recentemente ha scritto su un notiziario in lingua inglese dedicato alla Svezia che gli abitanti del più grosso paese scandinavo cominciano a vedere, insieme con i non pochissimi irlandesi che hanno messo radici qui, una delle abitudini cui i celtici non rinunciano. Il calcio gaelico in Irlanda è qualcosa che è possibile guardare sui megaschermi di molti pub, e che i cittadini dell’isola verde condividono con poche comunità molto affini a loro, come l’Australia.

Almeno 1500 irlandesi sono in Svezia da molto tempo e le stime realistiche indicano che sono parecchi di più.  A Malmo e Gothenburg sono nati club del GAA (Gaelic Athletic Association) e quest’ultima è una realtà legata alla storia dell’Irlanda in maniera paragonabile a quella in cui il calcio è presente da noi in Italia, difatti l’associazione del calcio gaelico è una aggregazione che ha perfino subìto pressioni politiche durante il periodo in cui l’Irlanda non era ancora indipendente, per il fatto di essere un fortilizio delle tradizioni e della socialità nazionali.

Dopo alcuni anni, le squadre “verdi” cominciano ad attrarre anche giocatori ed appassionati del posto. Se accade di vivere in Irlanda e di trascorrere molto tempo contemporaneamente con irlandesi, svedesi, inglesi e finlandesi si finisce per realizzare che se le differenze culturali sono grandi, però in molte cose e prima di tutto nella capacità di essere una comunità estremamente accogliente per le singole persone, esistono forti affinità tra queste popolazioni. Non stupisce ciò che Patrick Reilly ha scoperto cioè la facilità con cui in tanti in Svezia sono stati uniti da uno sport, formando squadre che oggi organizzano tornei riconosciuti.

Se in Svezia ovviamente le folle non riempiono gli stadi come accade al Croke Park di Dublino in modo anche massiccio, con decine di migliaia di persone, però è una novità che si comincino ad organizzare tornei che coinvolgono naturalmente irlandesi e australiani (depositari di questa disciplina con regole leggermente diverse, è noto che anche per l’origine celtica di gran parte degli australiani le tradizioni in comune sono molte), ma ora anche svedesi e un pò di francesi e belgi. Una abitudine insomma che cresciuta in due aree del mondo anglosassone fa leva sulla forte radice di questo mondo nel nord per farsi conoscere in Europa.

Mauro Palma: “Nel Trattato di Lisbona opportunità di garantire i diritti sociali”

Nel corso del Forum della Società Civile per l’anno europeo della lotta alla povertà che si è svolto a Napoli venerdì e sabato, i relatori del focus su Cittadinanza, Diritti Sociali ed Inclusione hanno discusso di beni comuni, politiche sociali e flexicurity, obiettivi di Lisbona che il Trattato introduce nelle norme scritte dell’Unione Europea

 

 

Venerdì pomeriggio, in uno dei focus più importanti in materia di lotta a tutte le forme di povertà nella nostra Europa Mauro Palma (Presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa) ha moderato il dibattito sulle garanzie che la Ue assicura alle persone che vivono nell’area dei 27 (e soprattutto su quelle che non assicura affatto e questo è proprio lo spazio che si apre all’azione politica che riguarda l’Europa). La conferenza si è svolta presso il Maschio Angioino di Napoli.

L’impostazione del Trattato di Lisbona è, contrariamente a quello che spesso si pensa, per l’Economia Sociale di Mercato e non per i due sistemi che hanno portato l’uno all’attuale crisi economica e ad infinite guerre e brutture, l’altro all’azzeramento dell’iniziativa privata e delle persone (e c’è un 3 per cento tendente al 2 per cento che in molti paesi come Italia, Spagna e Francia ancora insiste). Ma questa Economia Sociale di Mercato è tutta da fare. Non sembra che ne facciano parte gli immigrati extraeuropei ed europei, che sono carne da cannone dell’industria a basso costo con il beneplacito di leggi razziste, non sembra che ci stiano nella bambagia i precari e pensionati autoctoni, che appena aprono bocca sono razzisti ma l’attenzione dei professori illuminati dei partiti rivoluzionari per questi occidentali si ferma lì, perchè i cittadini di oggi per il resto spesso non sono operai nè braccianti e non starebbero bene sul quadro del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo.

Andrea Fumagalli è intervenuto proprio sulla flexicurity, la parola magica che per i liberisti all’italiana significa che quelli che perdono il lavoro stanno al sicuro a causa della libertà di investire le proprie competenze sul mercato. Ma che fine fa la flexicurity se uno è immigrato e perde il lavoro (che non sempre è regolare nel mondo reale) rischiando la repressione? se uno è pensionato al minimo e i costi di tutto, specialmente quelli di chi ha un modello di consumi che non prevede acquisti di lusso ma ordinari, salgono mentre agli enti locali vengono tolti i mezzi per fare assistenza? cosa succede se la formazione anche quando c’è conta poco, perchè chi avvia imprese per lo stato ultraliberista non esiste e per la sinistra residuale è un padrone delle ferriere?

Andrea Fumagalli, docente dell’Università di Pavia, da parte sua ha fatto notare che in Danimarca ed in Olanda c’è la flexicurity, ma ciò significa coerentemente presenza di ammortizzatori sociali, di formazione e di accesso al mercato del lavoro sulla base delle competenze. E senza troppe discriminazioni che (come è reso evidente per contrasto dalla solidità oltre le crisi e dalle capacità di rinnovamento di paesi come Danimarca, Olanda, USA, Svezia, Regno Unito che hanno una cultura di scambio con gli altri) sono zavorre che non aiutano il corretto sviluppo del mercato in nazioni come Grecia, Italia, Francia e Spagna, stati che (basta guardare le leggi, le carceri e talvolta i disordini di stranieri che non ce la fanno più) hanno puntato soltanto sulla repressione.

Altrove le leggi sull’immigrazione sono anche rigorose, ma il discorso è che poi non si fanno le differenze. In altri casi abbiamo situazioni che apparentemente sono aperte ma poi recludono non solo stranieri ma in blocco chi vive nelle periferie in stati di emarginazione (Francia) oppure situazioni in cui per comprimere gli emigranti nello schema di pura forza lavoro (si vedano le leggi italiane) si finisce per ignorare anche la realtà, cioè che non si può chiedere agli immigrati di raggiungere condizioni perfettamente stabili nel lavoro quando il mercato del lavoro non ne offre in generale, e soprattutto che costringerli alla clandestinità serve solo a permettere a chi sfrutta di farne concorrenti al ribasso.

Nel corso del dibattito Giuseppe Bronzini, di Magistratura Democratica, ha ricordato che quell’articolo 6 del Trattato di Nizza che tutela i diritti sociali acquista un valore giuridico con l’attuale affermazione del Trattato di Lisbona. Il vituperato progetto di costituzione europea infatti contiene anche cose buone, stratificate nelle norme che eredita anche dai Trattati passati (l’Europa è una casa che non si costruisce in un giorno). Venendo all’opinione di Bronzini, “sancire che i livelli minimi di trattamento sociale raggiunti ad oggi non devono essere inficiati significa che il giudice ordinario potrà essere interpellato per ottenere il rispetto delle garanzie primarie europee”.

Un fatto davvero interessante è che il giudice potrà anche disapplicare le norme nazionali qualora queste cozzino visibilmente contro i diritti che l’Europa impone. In un paese che in genere ha un numero di cinque donne su ventidue ministri e dove alcuni cittadini sono morti pestati in caserma una novità del genere non è propriamente un dettaglio, perchè potrebbe produrre la positiva imposizione di standard occidentali.

Gli altri relatori, Raymond Van Herman per il Forum permanente della società civile europeo, Pietro Barbieri presidente della Federazione italiana per il superamento dell’handicap e Antonello Scialdone dell’Isfol, l’organizzazione che si occupa di formazione, come pure Enrico Tedesco (dell’associazione Polis) e Francesco Fioretti (dell’associazione Enzo Aprea di Avellino) hanno sottolineato sotto vari aspetti  la necessità che l’Europa si attrezzi a garantire quella che è la base dell’esercizio dei diritti politici e cioè l’esistenza dei diritti sociali minimali.

Mauro Palma, come presidente del comitato che si occupa di contrasto alla tortura per il Consiglio d’Europa quindi per la diffusione dei diritti anche oltre la Ue di oggi, ha parlato in maniera accorata della opportunità di estendere i diritti di tutte le persone che vivono nello spazio europeo e non soltanto le garanzie contro gli abusi ma anche quelle che mettono gli immigrati e tutti i cittadini nelle condizioni di non cadere in situazioni che spesso vengono risolte dagli stati nazionali soltanto con la repressione. “Bisogna fare uno sforzo – ha detto Mauro Palma – per far valere nel diritto europeo le norme che vanno in questa direzione”. E’  un impegno, si può aggiungere, al quale non bisogna sottrarsi. Ma la strada sarà molto lunga.

Aldo Ciummo