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Brasile, due candidate raccolgono i due terzi dei voti

 

Nel gigante latinoamericano, trasformato negli anni della presidenza di Lula, la candidata del Partido de Trabalhadores, Dilma Roussef , arriva quasi al 48% (molto meno del previsto), la verde Marina Silva raggiunge il 20%, il rappresentante della destra José Serra ha ottenuto il 33%: a fine mese il ballottaggio

Il Partido dos Trabalhadores, simboleggiato in questi anni da un presidente, Lula, che per primo ha portato al governo la sinistra ed insieme ha messo nell’agenda delle decisioni le esigenze di una immensa parte dimenticata del paese, ha rivinto le elezioni, ma non è riuscito ad evitare il ballottaggio, che ci sarà il 31 ottobre. Il Brasile ha sperimentato l’efficacia della scommessa di Luiz Inacio Lula non solo a favore delle fasce meno abbienti della popolazione, che hanno iniziato per la prima volta, così massicciamente, a partecipare alla società dei consumi (che oggi non dimentichiamolo è in grande misura società di consumi immateriali e di comunicazione quindi di democrazia), ma anche a favore dello sviluppo nel suo insieme ed oggi il Brasile è l’ottava potenza economica, in procinto di affiancarsi all’Italia.

Ma le elezioni di ieri raccontano anche quanto in profondità le riforme hanno cambiato il Brasile, tanto che oggi a sorprendere gli analisti con un venti per cento dei consensi è il Partito Verde, guidato da una collaboratrice storica di Chico Mendes, il fondatore del movimento dei raccoglitori di caucciù assassinato dai latifondisti: Marina Silva, nata a Rio Branco nell’Acre, dove a quindici anni lavorava come domestica. Uno stato latinoamericano oggi è, nelle urne, all’avanguardia nella coscienza del legame inscindibile di diritti umani e integrità dell’ambiente. Un dato importante perchè proprio nelle aree dove lo sviluppo corre oggi si decide quale modello di crescita sarà al centro della concorrenza mondiale.

Dilma Vana Roussef, che negli stessi anni di dittatura (1964-1985) che hanno forgiato Luiz Inacio Lula Da Silva nella lotta sindacale per i diritti dei lavoratori è stata in carcere tre anni, ha scontato nelle consultazioni di ieri problemi emersi nell’ultima volata della campagna elettorale, a cominciare dallo scontro con la potente comunità evangelica brasiliana su aborto e coppie di fatto. Anche Marina Silva ha fatto parte del governo del PT, da cui uscì per rivendicare una maggiore attenzione ai temi ambientali, oggetto di concessioni alla grande impresa agricola ed ha avuto aspri scontri con la Roussef, il che rende poco prevedibile l’esito dei ballottaggi contro il candidato dei conservatori, José Serra, che il 31 ottobre vedrà impegnata Dilma Roussef per cercare di proseguire nel programma di riequilibrio della distribuzione delle risorse iniziato dal primo presidente di sinistra del gigante latinoamericano.

Non è trascurabile il fatto che, in un paese simbolo della trasformazione del pianeta in senso multipolare e della nuova capacità di emergere di larga parte del Sud del Mondo, si affermino in modo così netto fenomeni come l’attivismo ecologista e che due donne raccolgano più dei due terzi dei consensi. Dilma Roussef è di origini bulgare e la sua famiglia pur avendo molte risorse finanziarie incontrò inizialmente problemi per la sua estraneità al paese di approdo.

Tendenze che stentano a farsi strada in diverse zone delle aree più sviluppate trovano in un paese ancora associato per molti alla categoria delle nazioni in via di sviluppo ampio spazio e lo accostano a quanto si può osservare nell’attualità politica in Germania ed in Australia, dove Angela Merkel (Conservatori) e Julia Jillard (Laburisti) rafforzano la fiducia ottenuta e le liste ambientaliste rispettivamente si consolidano o si affermano per la prima volta. In tutti i casi citati si tratta di stati al centro dei processi di trasformazione degli equilibri attuali, perchè capofila di un insieme di realtà emergenti, promotori storici di nuove unioni istituzionali e simboli di aree culturali all’avanguardia nella diffusione di cultura e libertà nel pianeta.

Aldo Ciummo

Kevin Rudd: “l’Australia non è un paese razzista”

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Il dibattito sugli scontri tra culture e sulle difficoltà di integrazione è salito alla ribalta questa settimana in Australia, a seguito di eventi criminosi

 

 

Alcuni incidenti xenofobi, registratisi nelle principali città australiane negli ultimi mesi, hanno creato un clima di diffidenza in alcune comunità, fino a portare ieri molti tra gli indiani che vivono lì ad ipotizzare una matrice razzista nel caso di un omicidio di cui non è stata accertata la ragione (la vittima era uno studente e lavoratore proveniente dall’India).

La dinamica del brutale omicidio, condotto dando fuoco alla vittima, e l’uccisione pochi giorni fa di uno studente indiano anche lui, accoltellato, hanno diffuso più che inquietudine.

Non sono emersi però, secondo quanto rilevato dagli inquirenti, segni di matrice razzista e Kevin Rudd, primo ministro australiano, ha rigettato pubblicamente l’immagine di un paese che non accetta gli stranieri diffusa da alcuni.

L’Australia difatti è una nazione nata dall’immigrazione, rientra negli altissimi standard di apertura alle culture di recente arrivo tipici del mondo anglosassone ed è uno degli stati che fa di più per favorire l’integrazione dei nuovi cittadini attraverso l’istruzione ( assieme all’ U.K ).

La società australiana sta cambiando rapidamente, anche con l’insediamento di tanti cittadini asiatici ed è vero che si registrano gravi casi di intolleranza da parte di alcuni settori della società. Ma la stragrande maggioranza della popolazione si distingue per attivismo in favore di un equilibrio multiculturale.

Tim Watts, consulente del governo di Canberra e della compagnia di comunicazione Telco, ha messo in piedi un gruppo antirazzista nel suo paese e riecheggiando quanto detto da Kevin Rudd ha affermato che l’Australia non è un paese intollerante, tutt’altro, e che proprio per questo è opportuno preservare l’eccezionale tradizione di ospitalità e di comprensione da parte della comunità australiana, alimentando, anche per il futuro le condizioni che permettono lo scambio culturale e l’integrazione.

Watts però solleva un problema che non è soltanto del suo paese, sottolineando che la legislazione a volte è equivoca nel permettere a minoranze intolleranti ed anche a esponenti istituzionali di alimentare invece gli ostacoli verso gruppi di persone in via di inserimento nella comunità, e soprattutto che le istituzioni da sole non bastano ed occorre far lavorare la cultura, processo molto più lento dei grandi cambiamenti globali che sollevano disagi e paure.

Il consulente passato all’attivismo in favore dei diritti è uno dei tanti esempi delle naturali tendenze all’integrazione da parte della maggioritaria società australiana, in linea con la tradizione liberale di questo paese e delle società culturalmente affini .

Aldo Ciummo

Occupazione e ambiente, l’esempio di Londra

Stephen Lowe, consigliere per gli Affari Globali dell’ambasciata britannica a Roma, in una recente intervista all’agenzia nazionale Ansa ha stimato in 800.000 i posti di lavoro creati nel settore ecosostenibile di beni e servizi. Si avvicina Copenaghen e sul piatto c’è un accordo importante per il futuro del pianeta. I paradisi del Pacifico sono a rischio e in Europa un innalzamento della temperatura e del livello dei mari colpirebbe molto duro a Nord come a Sud (ed anche in Italia)

 

Una ricerca, presentata oggi dall’ambasciatore britannico in Italia, Edward Chaplin, e di cui le maggiori agenzie hanno dato notizia, illustra gli effetti pesantissimi che il cambiamento climatico sortirebbe. Lo studio è una mappa interattiva tracciata dal MET, servizio metereologico britannico. Tra ottanta anni in Italia la temperatura potrebbe essere di otto gradi maggiore rispetto alla media nei giorni più caldi dell’estate, si immaginino le conseguenze cliniche su una parte significativa della popolazione, in un paese abitato da molti anziani e naturalmente esposto alla diffusione di malattie di importazione, in un mondo globalizzato.

Non solo per l’Italia, ma per tutto il Mediterraneo, una massiccia riduzione delle risorse acquifere significherebbe non soltanto l’acuirsi di problemi sociali già difficili a causa di inefficienze ed iniquità distributive (ed anche come conseguenza di problemi strutturali ed infrastrutturali), ma anche una riduzione delle risorse agricole capace di portare a contrazione della ricchezza, aumento della disoccupazione e disagi alimentari in alcuni paesi dell’Africa e del Medio Oriente.

Stephen Lowe ha reso noto che nel Regno Unito 800.000 posti sono stati creati nel settore della economia ecosostenibile, tra il comparto dei beni e quello dei servizi. D’altronde l’Inghilterra gode di una prospettiva maggiore di quella di molti altri paesi riguardo alle vicende globali, cui di certo non è estranea la profonda conoscenza storica dell’area del Pacifico, una delle più minacciate dalle trasformazioni indotte dall’inquinamento. Pensare al clima oggi è infatti innanzitutto un atto di responsabilità verso i paesi più fragili anche economicamente ed ad esempio verso gli arcipelaghi del Pacifico la cui tutela è un test valido per il resto del pianeta perchè essi rappresentano l’equilibrio tra uomo ed ambiente.

Nauru, isole Salomone, Marshall, Fiji, Kiribati, Tuvalu, Palau infatti rilanciano rispetto agli obiettivi del mondo sviluppato e chiedono una riduzione del 40% delle emissioni nocive entro il 2020. L’Europa ha proposto il venti per cento (riprendiamo questi dati dall’Ansa). Nel caso tutti gli stati contribuiscano, si penserebbe di fissare l’obiettivo del 30%. I paesi meno sviluppati vogliono che sia riconosciuto il diritto di promuovere quella che è un pò la loro rivoluzione industriale e che le nazioni più ricche li aiutino, se vogliono che tutti costruiscano una economia verde.

Un segnale molto positivo, anzi due segnali, sono venuti dall’annuncio di Barak Obama, che parteciperà al vertice nei giorni più importanti, seguito dal premier indiano Manmohan Singh, che ha detto che ci sarà anche lui. Rispetto agli Usa, l’Unione Europea ha fissato sempre paletti più elevati e specialmente adesso, sotto la Presidenza Svedese e con la spinta anche della Danimarca che ospita il vertice, sta lavorando per un accordo il più responsabile possibile.

Aldo Ciummo

I conservatori verso un ruolo decisivo nel Regno Unito

 
l'UK contribuisce al rafforzamento dei legami culturali ed economici tra la propria area storica e la UE

l'UK contribuisce al rafforzamento dei legami culturali ed economici tra la propria area storica e la UE

Cameron, favorito alle elezioni, ha fatto capire che non userà il referendum come strumento per frenare il Trattato UE .

 

 Chi pensa che le riserve nutrite da alcune fasce di popolazione verso la situazione istituzionale europea nascondano euroscetticismo e che per questo il ruolo di un paese come il Regno Unito debba essere marginale  all’interno dell’unione probabilmente non ricorda che quando nel 1973 gli inglesi entrarono nella Comunità questo significò per noi europei diventare la prima potenza commerciale, portando a completamento un capovolgimento mondiale dei rapporti di forza economici e una crescita civile e sociale iniziati con la ricostruzione nel dopoguerra e successivamente con la creazione della CECA dal 1950 e poi nel 1957 del mercato comune, la CEE, e dell’Euratom.       

David Cameron, voce del partito conservatore, che plausibilmente formerà il prossimo governo, nella conferenza dei Tories a Manchester sabato scorso ha di fatto escluso la possibilità di indire un referendum se il Trattato sarà già stato sancito dagli altri stati (eventualità più che probabile dopo il sì irlandese), vanificando le pressioni dell’ala contraria all’integrazione europea e ridando slancio alla parte pro-europea del partito, che nel suo complesso ha vissuto molte fasi favorevoli all’Unione Europea (anche più dei Laburisti, ad esempio nel dopoguerra e all’inizio degli anni settanta).

I promotori di un referendum mirato revisionare il Trattato (tra i quali il sindaco di Londra Boris Johnson) resteranno naturalmente in assetto propagandistico e premeranno sui vertici dei Tories per rallentare l’avanzamento istituzionale previsto. Richard Sheperd e Daniel Hannan dicono che la consultazione è vitale ed alla loro posizione si è adeguato il ministro-ombra per gli Esteri William Hague, ma altri esperti esponenti dei Conservatori come Leon Brittan, che è stato ministro degli Interni durante la prima metà degli anni ’80, affermano a chiare lettere che per il Regno Unito sarebbe un errore abbandonare le linee di politica estera che hanno permesso all’isola di dare all’Unione Europea uno dei contributi più significativi alla sua crescita economica e civile.

E’ vero che le tendenze alla diffidenza verso le istituzioni della UE sono fortemente rappresentate, anche in termini numerici, tra i deputati tories, ma autorevoli rappresentanti e tecnici dello stesso gruppo sono di avviso diverso. Anche se lo stesso David Cameron è stato sostenuto nella sua ascesa nel partito proprio da politici contrari al Trattato come Sheperd e Hannan, tanto che talvolta il candidato premier ha frenato le correnti più favorevoli all’Unione Europea come quella rappresentata dal ministro-ombra per l’Economia, Kenneth Clarke, ad oggi risulta abbastanza chiaro che Cameron non aprirà un confronto sterile con Bruxelles, ma negozierà le legittime istanze del suo paese nel quadro di un avanzamento dell’architettura istituzionale europea, qualora eletto primo ministro.

Kenneth Clarke e Greg Clark che è il rappresentante dei Tories per l’Energia rappresentano d’altronde la parte dei conservatori più vicina allo sforzo di rinnovamento elaborato da David Cameron e si trovano maggiormente in sintonia con la società attuale se è vero (come quasi tutti i sondaggi indicano) che il gradimento riscosso dalla “nuova” leadership è molto più esteso di quello raccolto dal “vecchio” partito, ormai da dodici anni all’opposizione.

Aldo Ciummo