
L’Oscar vinto dalla regista Susanne Bier si associa ad un interesse articolato per i film prodotti dall’ultima generazione di registi di un piccolo paese europeo, ma la storia di questo cinema nasce da lontano
Susanne Bier, con la vittoria del Golden Globe e in ultimo dell’Oscar (il 28 febbraio), ha finito con l’accendere di nuovo i riflettori su una nuova stagione di interesse per il cinema danese, molto presente nella scena attuale con diversi registi, artefici di una impresa non facile, dato l’ostacolo evidente incontrato da una industria culturale che fa riferimento ad una lingua parlata da cinque milioni e mezzo di persone, in un mercato sempre più basato su grandi numeri.
“In a better world” ha fatto discutere molto, in un periodo storico che lascia emergere i limiti di impostazioni pacifiste ad ogni costo nel panorama mondiale attuale, caratterizzato da contraddizioni che il film evidenzia attraverso il tema dell’assenza di equilibrio e della relatività della giustizia.
Ma la capacità del cinema danese di rappresentare diversi contrasti contemporanei in quest’ultimo periodo ha spaziato dalla commedia di Henrik Ruben Genz alle storie più recenti di Ole Christian Madsen, passando per la biografia di Dirch Passer realizzata da Martin Pieter Zandvliet e da lavori di cui è ancora attesa l’uscita nelle sale, come Melancholia di Lars Von Trier. L’industria cinematografica danese è in piena crescita, grazie all’attività di produttori e registi.
Il Danish Film Institute (“Det Danske Filminstitut”) è l’agenzia governativa con la quale lo stato incoraggia la creatività in Danimarca e la sua promozione all’estero ed in ottobre, nel Folketing (il Parlamento Danese, Ndr), è stato rinegoziato l’accordo che regola l’elasticità della produzione nel settore, all’interno del quadro di supporto assicurato agli operatori del comparto dalle istituzioni. Tutte le forze politiche hanno sostenuto un programma di rafforzamento dei film danesi per il periodo 2011-2014.
Il quadro legislativo danese, definito dal “Film Act” del 1997, mira ad una offerta il più rappresentativa possibile rispetto alle tendenze artistiche, da opere come la pellicola che ha ottenuto l’Oscar alla fine di febbraio al documentario “Armadillo”, di Lindholm e Noer. Un altro capitolo sempre al centro dell’attenzione del DFI, l’istituto danese del cinema di cui si è parlato, è il supporto ai film dedicati ad un pubblico di giovani e di giovanissimi, una area tematica alla quale va non meno del venticinque per cento dei fondi governativi destinati al settore.
La storia del cinema danese è stata, fin dalle origini, caratterizzata dall’ attenzione del settore pubblico verso questa forma di arte, dopo i film muti e i melodrammi dei primi decenni del secolo ed un momentaneo declino tra le due guerre mondiali, la nuova legislazione per il cinema negli anni trenta accompagnò il successo del sonoro, mentre il secondo dopoguerra sancì il gradimento generale delle folk-comedies ma anche la nascita di un cinema impegnato. Dal 1964, i governi hanno dato stabilmente il loro aiuto alla crescita dell’industria cinematografica, contemporaneamente molti film raggiungevano pubblico e critica internazionali. Nel 1972 è nato il Danish Film Institute (DFI): erano gli anni dell’avanguardia, del realismo sociale e dei giovani registi.
Alla situazione attuale, entusiasmante per i protagonisti dell’industria culturale danese anche nella letteratura e nelle arti applicate, si è arrivati attraverso gli anni ottanta, quando sono giunti gli oscar di Nils Malmros e Lars Von Trier, portatori di lunghi dibattiti con il loro realismo segnato da uno sguardo umano, mentre gli anni novanta hanno visto il ritorno delle commedie popolari, ma anche la diffusione internazionale di Dogma Film, Zentropa e Filmbyen a livello industriale. Dal 1997, inoltre, il quadro legislativo ha permesso ai registi una libertà espressiva ancora maggiore rispetto al passato.
Aldo Ciummo
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