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L’ultima tragedia nell’isola dei liberi

Port-Au-Prince prima del sisma

 

Haiti, dilaniata dal terremoto ieri, è stata il simbolo dell’indipendenza delle Americhe e della libertà dei neri, ma anche un nome che richiama una serie di situazioni drammatiche, vicende determinate dall’uomo e dalla sopraffazione economico militare degli stati più forti, ferite cui si aggiunge il disastro naturale che in presenza di infrastrutture fatiscenti ha colpito ancora più duramente la nazione di Haiti e la sua capitale

 
Un terzo dei nove milioni di abitanti della poverissima Haiti direttamento colpito. Si parla di centomila vittime e forse purtroppo sono molte di più. L’aiuto mondiale che si mette in moto è preceduto dalla velocità delle immagini e dalla urgenza del dramma che ha picchiato duro su un bersaglio già fragile. Haiti è uno degli stati più esposti all’indigenza, ai problemi di salute, alla instabilità istituzionale, delle Americhe e del pianeta. Le scene riferite dai primi testimoni erano quelle dei film catastrofici, l’energia stimata dai sismologi trenta volte il caso dell’Aquila. Le infrastrutture a Port-Au-Prince erano quelle che erano, ma la forza del sisma ha buttato giù anche le più solide, i pochi simboli dello stato.

Quella di Haiti è una storia importante e dolorosa. Qui, nel 1792, rivoluzionari francesi si allearono con gli ex schiavi neri, la stragrande maggioranza della popolazione nell’isola, per cambiare la faccia del mondo: che cambiò davvero, perchè Toussaint L’Ouverture, leader dei neri, riuscì a tenere lontani gli spagnoli e più tardi a resistere al corpo di spedizione inviato da Napoleone per riprendere il controllo della colonia francese. L’Ouverture fu imprigionato e morì nella prigionia francese, ma poco dopo, nel 1804, Haiti divenne libera.

Avanguardisti dell’autodeterminazione nell’America del Sud e nel Sud del Mondo, gli haitiani dovettero difendere costantemente ciò che nell’epoca del colonialismo era un’eresia fatta realtà, uno stato di ex schiavi, di neri, di sudamericani umili che avevano il controllo del proprio governo. Germania, Stati Uniti, Francia, in una occasione pure la comunità siriana: non si contano le potenze e i gruppi di influenza che a cavallo tra 1800 e 1900 cercarono di impadronirsi delle leve del comando nel piccolo stato, ricco di risorse ma con una popolazione poverissima.

La più recente sciagura che ha reso nota la repubblica nel mondo è stata la dittatura di Duvalier, una storia durata dalla fine degli anni cinquanta alla metà degli anni ottanta e che ha proseguito la spoliazione delle risorse del paese a vantaggio di sparuti ma potentissimi gruppi finanziari i cui vertici si trovavano lontanissimi dalla vita disperata delle periferie e dei campi haitiani: a Parigi e in altre grandi capitali, dove risiedevano i soli amici dell’oligarchia che con il loro aiuto militare e strategico manteneva il controllo dell’isola (la cui porzione governata dalla repubblica Dominicana stava passando attraverso una vicenda per moltissimi aspetti analoga).

Oggi si assiste ad un terremoto, che è un fenomeno naturale quanto tragico: ad Haiti c’è già una missione delle Nazioni Unite, difatti sul campo sono rimasti anche alcuni caschi blu, cooperatori americani ed altre persone legate all’isola. La missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite è lì fin dal 2004 e ricorda al mondo che adesso che l’obiettivo dei media è puntato su Port-Au-Prince, attirando navi di aiuti e decine di migliaia di uomini e mezzi, è il momento opportuno per rendersi conto del terremoto non meno letale, sociale e civile, abbattutosi quasi ininterrottamente sulla repubblica haitiana almeno se si guarda agli ultimi cento anni. E non si tratta di un’immagine retorica, perchè ha provocato stragi reali.

All’emergenza attuale deve seguire la ricostruzione di Haiti e delle sue istituzioni (solo cinque  anni fa è avvenuto l’ultimo colpo di stato) e specialmente il mondo nordoccidentale può sostenere la nazione nera di quest’isola, dove tante lacerazioni sono sorte proprio per interventi interessati da parte delle potenze di turno. L’urgenza della solidarietà può fornire agli stati più forti il coraggio di sostenere Haiti. La popolazione locale di coraggio ne ha dimostrato già in tutta la sua storia. La politica mondiale è cambiata profondamente tra 2008 e 2009 ed il segnale che verrà dato a questa comunità può realmente lanciare l’indicazione che si vuole fare del momento attuale l’anno zero di molte questioni irrisolte.

Aldo Ciummo

Jorge Castaneda: Multipolarismo nelle Americhe e nel pianeta

San Paolo nel Brasile

Lo studioso ed ex ministro degli Esteri del Messico, in vista di un 2010 che coinvolge il Brasile nelle decisioni più importanti e che trova Honduras, Venezuela e molti altri stati del subcontinente latino ancora alle prese con problemi difficili, ha descritto l’area come un laboratorio adatto alle sfide che attendono il pianeta complessivamente

 

In questi anni il Brasile che punta a superare le povertà direttamente con la valorizzazione delle nuove conoscenze, il Venezuela con la sua contraddittoria ricetta di emancipazione fondata sull’attivismo dello stato, Bolivia, Ecuador, Paraguay con le loro in gran parte legittime ma a volte semplicistiche aspirazioni di riappropriazione delle risorse, ma anche l’Argentina e il Cile con le proprie innovazioni politiche, Cuba con una testimonianza ancora viva pure se inficiata da limiti visibili, hanno preso il centro della scena nel mondo multipolare.

Secondo Castaneda, intervenuto sulle questioni latinoamericane alla fine del 2009, gli Stati Uniti sono destinati a ridurre la propria influenza nelle Americhe meridionali ma il loro ruolo resterà determinante nella soluzione delle crisi ancora in corso e parteciperà alle strategie di sviluppo che si stanno definendo. Messico, Brasile, Argentina, sono nella sua descrizione del panorama iberoamericano le avanguardie di una combinazione inedita di autodeterminazione nazionale e sviluppo dei diritti umani.

Castaneda ha menzionato logicamente il trauma del colpo di stato in Honduras, di cui resta da chiarire l’acquiescenza preoccupante da parte di settori economici e politici del mondo sviluppato, in assenza della quale sarebbe difficile immaginare la lunga tenuta dell’avventura di Micheletti, e menziona anche la tendenza autoritaria assunta dal governo di Chavez in Venezuela, una vicenda che, aldilà della piega antioccidentale e poco rispettosa delle regole democratiche che ha assunto negli ultimi anni, ha rappresentato per Caracas un esperimento capace di restituire al Venezuela ed a un’area più ampia una possibilità di autogoverno e di partecipazione improbabile pochi anni prima.

Tra l’interventismo invasivo del Novecento ed una nuova epoca di assenza delle iniziative nordamericane nell’America Latina, ha osservato Castaneda, esiste una via di mezzo che tenga conto dei rapporti anche positivi ed in ogni caso complessi (ed ineliminabili da un giorno all’altro se non a costo di scompensi dalle conseguenze poco prevedibili). America Latina e Stati Uniti sono legati storicamente, Brasile e Usa collaborano ai progetti riguardanti l’economia sostenibile ed a molto altro, Washington non può fare a meno di acquistare idrocarburi da Caracas (per quanto le politiche neoconservatrici nordamericane abbiano cozzato contro i progetti di nazionalizzazione portati avanti da Chavez). E lo sviluppo cileno resta interrelato a quello statunitense anche se settori importanti degli Usa hanno avuto un ruolo nella terribile ascesa di Pinochet e nella longevità del suo regime.

Castaneda ritiene che le istituzioni regionali e gli strumenti della democrazia siano in grado di inquadrare in una cornice di lungo periodo (e nella quale gli Stati Uniti e le potenze dell’area possano avere una parte attiva) le istanze di quella sinistra anche populista ma protesa a mettere in prima fila le fasce popolari a lungo escluse nel subcontinente latino: i governi nazionalisti di sinistra paraguayano, venezuelano, boliviano, ecuadoriano, la potenze storiche brasiliana e messicana, le esperienze cubana e nicaraguense.

Se gli Stati Uniti trovano la traiettoria per un rapporto rispettoso della sovranità a sud e le società sudamericane superano le ostilità stratificatesi nel ventesimo secolo, questo potrebbe dirsi davvero concluso per le Americhe, le cui responsabilità vanno verso un maggiore equilibrio nell’epoca del mondo multipolare.

Klaus il monello si gioca tutto, l’Europa fa la voce grossa

 

 

E' davvero priva di basi la paura che uno staterello non possa più dire di no?     Bruxelles FOTO di Aldo Ciummo

E' davvero priva di basi la paura che uno staterello non possa più dire di no? Bruxelles FOTO di Aldo Ciummo

Il governo ceco sta considerando anche l’ipotesi di estromettere Klaus,  presidente iperconservatore di fronte ad una Unione Europea sempre più impaziente

 

 

 

Oggi, in sessione di emergenza, il Consiglio dei Ministri della Repubblica Ceca ha affrontato la questione del rifiuto del Capo dello Stato di firmare il Trattato di Lisbona, già ratificato dalle due camere. Il premier Jan Fischer è a capo di un governo debole, ma potrebbe anche chiedere ai deputati di destituire Klaus, oppure di accusarlo di agire contro l’ordinamento democratico dello stato. Si tratta in ogni caso di una ipotesi poco probabile e l’esecutivo sta anche cercando di mediare con il presidente Vaclav Klaus, assicurando il suo impegno perchè gli altri membri della Ue accettino la sua richiesta di garantire alla Repubblica Ceca una clausola che la escluda dal vincolo della Carta dei Diritti Fondamentali.

Difficile posizione quella della Repubblica Ceca, in attesa della firma necessaria a sbloccare il Trattato di Lisbona: un presidente, Vaclav Klaus, che non crede a quest’ Europa, tanto che la ha definita qualche volta “sovietica”, il parlamento di Praga che teme l’isolamento perchè pure la Polonia, per metà ancora immersa nel periodo conservatore del presidente Lech Kaczynski ha firmato questo sabato proprio per mano di quest’ultimo. Un Europa che strattona, senza esitare ad accusare di euroscetticismo tutti quelli che non le dicono sì e subito, senza garanzie, senza mediazione con quel mondo pre-esistente che per ciascuno è la società di origine. Le comunità nazionali, quando hanno la possibilità di partecipare sia pure un minimo al dibattito su come sarà la struttura istituzionale nella quale si coordineranno, complessivamente si dimostrano favorevoli alla comunità europea, come si è visto il 2 ottobre nel referendum irlandese e come sta riemergendo nel Regno Unito con il progressivo riavvicinamento di Cameron all’ala europeista dei suoi Conservatori e con lo scarso consenso che gli inglesi dimostrano verso la vecchia guardia isolazionista di quel partito, segno che anche lì l’Unione Europea risulterebbe più educata coinvolgimendo la popolazione nelle questioni reali e presenti nella vita dei cittadini e permettendone  il protagonismo, piuttosto che agitare lo spauracchio dell’antieuropeismo.

Strana situazione quella odierna della Repubblica Ceca, Vaclav Klaus è un presidente che davvero agita richieste poco comprensibili, come la possibilità per la Repubblica Ceca di tirarsi fuori dalla Carta dei Diritti fatta propria dall’Unione Europea, è un politico che ha posizioni arretrate sui diritti individuali e uno statista che giustifica le proprie paure verso l’integrazione continentale chiamando i causa il passato remoto ed i tedeschi dei Sudeti (che a suo parere potrebbero chiedere qualcosa in base al documento da cui si chiama fuori) però la sua ostinazione inconcludente finisce per attirare allo scoperto e svelare un modo di procedere sulla strada dell’integrazione che da parte dell’ Unione Europea manca vistosamente non tanto di capacità di ottenere dai paesi adesione (già raggiunta anche a Praga, perchè lì prima ancora della politica è la società, che è una delle più laiche e vivaci delle ventisette, che sta premendo perchè la Repubblica Ceca contribuisca integralmente alle iniziative europee) l’Unione Europea manca soprattutto di volontà di integrare nella sua cultura la partecipazione dei cittadini, dei gruppi associativi, delle regioni e anche delle culture, quando anche siano considerate attardate rispetto ai princìpi di Bruxelles e di Strasburgo, che sono in larga parte i nostri, derivati dai progressi dei lavoratori e dei movimenti democratici, ma che sono princìpi che se non vogliono tradire se stessi non possono essere imposti in un ottica coloniale verso lo stesso continente dal quale sono stati generati e in cui sono maturati.

Domenica il Sunday Times ha riportato le dichiarazioni di un senatore ceco riguardo ad accenni del presidente francese Nicolas Sarkozy alla possibilità che la Repubblica Ceca venisse espulsa dall’Unione Europea, ma soprattutto ha fatto riferimento a manovre di diplomatici francesi e tedeschi per esplorare la possibilità di rimuovere l’ostacolo mettendo in stato di impeachment Klaus, oppure modificando la costituzione ceca nella parte che concerne le sue prerogative. Avvenimenti comunque improbabili, perchè richiederebbero una sorta di terremoto istituzionale a Praga, sebbene Klaus sia molto isolato nella sua crociata anti-trattato, dato che anche l’ex premier Topolanek ha espresso dubbi sulla solidità delle richieste addotte a motivo della dilazione della firma da parte del presidente e così quasi tutte le forze politiche.

Aldo Ciummo

Abruzzo, l’Europa c’è

 

Il Parlamento Europeo, sede di Bruxelles,                                                   FOTO di Aldo Ciummo

Il Parlamento Europeo, sede di Bruxelles, FOTO di Aldo Ciummo

Il Parlamento Europeo ha mobilitato quasi 494 milioni dal Fondo di Solidarietà della Unione Europea

 

 

Oggi il Parlamento Europeo ha deciso di mobilitare una somma di 493.771.159 euro di stanziamento del Fondo di Solidarietà dell’Unione Europea per riparare i danni causati dal terremoto che ha colpito l’Abruzzo nell’aprile del 2009. L’evento è stato classificato come “catastrofe naturale grave” perciò rientra nel fondo.

Il Fondo di solidarietà dell’Unione Europea è stato istituito nel 2002 con l’obiettivo di affrontare situazioni di emergenza e di ripristinare condizioni di vita normale anche in seguito ad eventi straordinari. E’ considerata grave una catastrofe che provoca danni stimati in oltre 3 miliardi di euro oppure comunque superiori all 0,6 per cento del Prodotto Nazionale Lordo dello stato. Questa che l’Italia si è vista accettare è la terza proposta di mobilitazione del fondo accordata nel 2009, dopo quelle avanzate dalla Romania e della Francia.

Il contributo finanziario continentale servirà a ristabilire la vivibilità del territorio, occorreranno chiaramente anche una strategia chiara da parte dello stato italiano, una forte vigilanza verso il pericolo concreto di infitrazioni illecite nel processo di ricostruzione, priorità alle considerazioni ecologiche in grado di prevenire danni futuri e anche un rispetto almeno minimo dell’autodeterminazione della popolazione della zona colpita, finora scavalcata dalla celebrazione a senso unico dei progetti governativi. Difficile dimenticare che perfino le proteste che parte dei terremotati ha portato fino a Roma sotto i palazzi delle istituzioni sono state praticamente ignorate dai maggiori mezzi di comunicazione, e che le condizioni di lavoro di coloro che hanno portato avanti a tempo di record le nuove costruzioni sono state avvolte da un velo. Inoltre, anche l’Aquila storica attende la sua rinascita.

E’ auspicabile che l’Europa faccia sempre di più in materia di reciproca solidarietà e che al suo interno le società di arrivo non dimentichino mai che i sacrifici imposti dalla stabilità monetaria, il drenaggio fiscale che permette la costituzione dei fondi destinati agli aiuti, il lavoro semi regolare alla base della crescita della ricchezza dell’intero continente sono sforzi sostenuti da tutte le sue componenti, anche dai paesi di recente ingresso nell’Unione e dalle persone che più frequentemente scelgono di stabilirsi nei paesi fondatori lasciando quelli di origine.

Aldo Ciummo

EVENTI|Tribunale Permanente dei Popoli, al via l’udienza deliberante di Bogotà

L’udienza sarà preceduta dalla sua quinta fase istruttoria relativa allo sterminio storico delle popolazioni indigene colombiane

A due anni dall’indagine sull’intervento delle imprese transnazionali nei diversi campi di estrazione delle risorse naturali dello Stato colombiano e sugli impatti che tali attività hanno sui diritti dei popoli in Colombia, il Tribunale Permanente dei Popoli (TPP), tribunale di opinione della Fondazione Basso – Sezione internazionale, realizzerà l’udienza deliberante dal 21 al 23 luglio 2008 nella città di Bogotà.

L’udienza sarà preceduta dalla sua quinta fase istruttoria relativa allo sterminio storico delle popolazioni indigene colombiane e si realizzerà presso il territorio protetto degli indigeni Kankuamo, in Sierra Nevada de Santa Marta.

Nel corso dell’udienza saranno chiamate a giudizio numerose imprese transnazionali e i loro Paesi di appartenenza, gli organi di governo dello Stato colombiano e gli organismi finanziari internazionali per determinarne le responsabilità nei casi di violazioni del diritto alla vita, alla dignità e alla salute; del diritto all’autodeterminazione culturale, economica, politica e sociale; del diritto alla sovranità e alla sicurezza alimentare; del diritto alla terra; del diritto a un ambiente sano; del diritto all’accesso ai servizi essenziali; del diritto dei popoli indigeni e dei lavoratori.

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