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ARTE|Il dannato Basquiat

Arte primitiva e del ghetto: nel 1988 finiva la parabola del primo pittore di colore nella storia dell’arte

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Simone Di Stefano/SG

Se c’è un’età perfetta per morire, allora quella è senza dubbio a 27 anni. Il perfetto cliché dell’artista, dedito a far uso di droghe, visionario e un pò fanciullo. Droga, droga e ancora droga: eroina e coca. Gira la testa, gli occhi si appannano, la nebbiolina che si frappone tra l’istante reale e l’infinito del proprio io ha un nome ben preciso: illusione. Ma vivere nell’irrealtà costa non solo soldi, quelli per chi ce l’ha, ma anche la vita. A volte. Jean Michel Basquiat viveva in un rettangolo di cartone, in chissà quale angolo sperduto di Central Park, a New York. Certo il Basquiat di Julian Schnabel mescola l’arte del pittore haitiano a quella del regista autore della sua biografia, anch’esso pittore, anch’esso artista, anche se meno, molto meno produttivo. La scena è quella del Jet Set di New York a fine anni ’70. New York è tutta una mostra. Dominano gli Warhol boy. Categoria quanto mai indefinita, ma sempre efficace per capire di primo pelo quanto ci volesse poco ingraziarsi un manager, rimediare un patrocinio ed arrivare ad esporre alla Mary Boone Gallery. Basquiat andò oltre. Riuscì a diventare a soli 24 anni il primo pittore di colore a far parlare di se.

 

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Solo una cosa gli dava fastidio: vietato dire di lui come “la mascotte di Andy Warhol”. Lo fece il New York Times e lui andò su tutte le furie. Leggenda e finzione poi si confondono nell’immaginario metropolitano, quindi non è sempre facile dire se Basquiat fosse un donnaiolo, un buono o un cattivo, un traditore. C’è chi ha voluto disegnare la sua personalità come di uno che si è scordato degli amici, una volta raggiunto il successo.Ma la sua arte, la sua voglia di far regredire il mondo a un doppio bit, 1 o 0, quel ritorno al primitivismo esagerato che per accostamento di colori e sagome fa tornare in mente il Picasso di Guernica. Quel Basquiat sapeva come colpire il pubblico.

Per allestire una mostra, la sua prima personale, si chiuse un mese in estrema solitudine. Lui, le tele, alcune di proporzioni giganti, e tanta vernice. Celeste, verde, “marrone come la cacca”, nero, bianco. Colori puri, neutri, impastati. Un successo che gli valse la fama, il riconoscimento per esser vissuto una vita nei bassifondi. A vendere per pochi dollari dei quadratini di “analphabet art”. Gli valse anche l’amicizia di Andy Warhol (nel film di Schnabel interpretato da un meraviglioso David Bowie) e con lui progredì quel ramo di pop art più incline all’industria e allo smercio.

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I soldi fanno cadere giù. Dalla cresta dell’onda il surfista che non tiene botta precipità già, affonda nel maremagnum del suo andare oltre, dello sfidare il destino. Quel passo importante non potrebbe esser compiuto se la vita non ti ha dato la possibilità di arrivare fin su. Alla scalata segue scalata, ma poi inevitabilmente si deve cadere giù. Gli ultimi anni di vita di Basquiat sono solo una parabola discendente, al fianco dell’unico amico rimastogli. A ogni tela di Warhol seguiva una zampata di colore di Basquiat. Fino all’overdose, fino a cambiare nome.

Simone Di Stefano/SG