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AFRICA|Gli aiuti Onu in Congo, ma i profughi sono spariti

Villaggi vuoti e capanne date alle fiamme, lo spettacolo agghiacciante agli occhi dei caschi blu

Simone Di Stefano/Skapegoat

A Goma, ai confini estremi della giovanissima Repubblica Democratica del Congo, la situazione a margine della crisi umanitaria scoppiata ormai da qualche giorno nell’intero paese, sembra che stia tornando lentamente la normalità, sebbene le schiere di guerriglieri affastellate ai margini della periferia non sembrano dettare la pace, anzi. Tuttavia riaprono i negozi e le donne tornano a riempire i mercati, segno di un clima più disteso rispetto al passato recente. Prosegue il coprifuoco, che va dalle 23 alle cinque del mattino, per evitare gli stupri e le violenze degli ultimi giorni.

Lo scorso lunedì un convoglio umanitario, composto di cinquanta caschi blu, è partito dalla città per dirigersi 75 chilometri più a sud in direzione Rutshuru, capoluogo del Nord Kivu e roccaforte dei ribelli nell’est della Rdc. Al cospetto dei militari Onu lo spettacolo era desolante e difficile da descrivere. Niente acqua e nessun medicinale somministrato al loro arrivo, il villaggio era completamente abbandonato, le capanne bruciate dai ribelli erano vuote e alla conta mancano circa cinquantamila profughi cui si è persa ogni traccia.

Dopo il cessate il fuoco proclamato mercoledì scorso dal capo dei ribelli Laurent Nikunda, gli aiuti umanitari diventano di estrema urgenza e importanza anche per i tantissimi profughi della regione più bersagliata dalla guerra lampo, il Nord Kivu. Anche qui la situazione sta lentamente tornando alla normalità e gli sfollati stanno via via tornando ad abitare le loro case.

A Goma intanto si teme per le sorti dei civili. I caschi blu «faranno il possibile per garantire la loro sicurezza», ha detto Alain Le Roy, capo della forza di pace delle Nazioni Unite. Uno dei convogli arrivati a Rutshuru avrà il compito di spingersi verso le altre zone controllate dai ribelli.

Una guerra, quella nella Repubblica Democratica del Congo, che occorre dirlo, in parte è causa occidentale. Tuttavia nessuno ne parla e in pochi hanno il coraggio di ammettere le proprie responsabilità. La zona contesa è tra le più ricche di diamanti e miniere. All’indomani della fine della Seconda Guerra del Congo (1998-2003), che per il numero dei morti e di paesi africani coinvolti è stata ribattezzata la Guerra Mondiale d’Africa, con le città e i villaggi ancora devastati dalla violenza, mentre si raccoglievano ancora le macerie degli edifici massacrati a colpi di Kalashnikov di sei lunghi anni di guerra, nacque parallelamente un florido commercio di diamanti, di cui gli acquirenti principali erano proprio occidentali.

I negozi per attirare i loro clienti esponevano insegne con foto di Rambo con il mitra. Dopo altri cinque anni di silenzio è scoppiata nuovamente la miccia e assieme al Kivu l’epicentro dell’ennesimo scontro è, più a est, la regione del Kasai. Quando di mezzo ci sono gli affari è difficile, se non impossibile, parlare ancora di scontro etnico.

Simone Di Stefano/Skapegoat

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